mercoledì 27 agosto 2025

📝 Diario di bordo n°34 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°34 – Agosto 2025
Dal letto d’ospedale al palco di Rimini: fiction istituzionale in diretta.

Ore 3. Occhi spalancati nel buio come due fari accesi nel nulla. Il cervello ha deciso di organizzare una maratona di pensieri senza avvisare. Tanto per gradire, WhatsApp mi regala una sorpresa: un caro amico di lavoro mi scrive che oggi pomeriggio, visto che sarò a Massafra per la solita sfilata in ospedale, passerà a salutarmi. Bella mossa. Sorrido e sono contento per questo bel pensiero. 
Ci vuole poco per far sorridere uno che alle 3 di notte è già in piedi.

Ore 4. Indovinate chi è ancora sveglio? Esatto. L’ansia pre-chemioterapia è una bestia elegante: arriva puntuale e si mette comoda. Forse è ansia da prestazione. Dovrei iniziare a chiedermi se merita un applauso ogni volta che vince lei.

Ore 6. La sveglia suona e io faccio il conto: quattro ore di sonno, tutte messe insieme a cucire un patchwork di micro-sonnellini. Caffè, pillole varie, la solita routine del guerriero che si prepara all’arena.

Ore 7. Messaggio motivazionale al gruppo degli ecoattivi che oggi pomeriggio si trasformeranno in supereroi con guanti e sacchi neri per raccogliere e ripulire da bottiglie di vetro e plastica in un angolo di Statte. Loro sì che fanno politica vera: non parlano, raccolgono e rendono bellezza. La chiamano cittadinanza attiva, io la chiamo “gente che ha davvero a cuore il proprio paese”.

Ore 7.30. Lettino della clinica, parte la giostra. Anche oggi in camera da solo. Non che mi dispiaccia: meno gente in sofferenza, più silenzio per le mie riflessioni acide.

Ore 10.30. Uscito dalla stanza, un’altra chemio archiviata. Sabrina mi fissa con quell’aria dolce e mi ricorda l’appuntamento della prossima settimana. Puntualissima, lei.

Via verso casa. Ringrazio mentalmente mio figlio Vittorio: lui che, al posto di una vacanza, sta usando le ferie per accompagnarmi in questa avventura tossica (letteralmente). Grazie anche alla sua azienda e ai suoi colleghi, che non gli mettono i bastoni tra le ruote. 
Ah, la Legge 104? Lì, ferma al palo. Lo Stato è lento, ma la malattia no. Vittorio, tu sì che sei il vero sostegno.

Ore 11. Finalmente a letto. La chemio lascia il suo biglietto da visita: spossatezza e sintomi assortiti. Mi sdraio, accendo la TV, mi affido a La7.

Ed eccola lì, in diretta dal palco del Meeting di Rimini: Giorgia Meloni, con la sua voce impostata, che ci regala perle tipo: “Non lasciare indietro gli ultimi”, “Valorizzare il capitale umano”, “Il diritto alla salute”. 
Rimango immobile. Rifletto. Poi quasi salto dal letto. 
Ma signora presidente… a Taranto il diritto alla salute è come un unicorno: tutti ne parlano, nessuno l’ha mai visto. E sentirlo urlare da lei, proprio mentre un ministro del suo governo come Adolfo Urso ci ha messo il timbro ufficiale del sacrificio, beh… è come sentirsi dire che Babbo Natale esiste.

Sì, anche i governi precedenti ci hanno trattato da discarica a cielo aperto, è vero. Complimenti anche a voi per la coerenza.

Fine prima parte.
Mi ritiro tra cuscini e sarcasmo per recuperare energie: il resto della giornata lo racconterò nella prossima puntata di questo reality show involontario che è la mia vita.

martedì 26 agosto 2025

📝 Diario di bordo n°33 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°33 – Agosto 2025
Capitolo di vigilia.

Quest’oggi ho proseguito il mio itinerario sanitario, una tappa dopo l’altra come un marinaio che conosce ogni porto di questa lunga traversata. 
Sono stato alla Cittadella della Carità, lì a Paolo VI per una ulteriore visita. 
Un luogo vasto, pieno di potenzialità, ma anche segnato da un senso di abbandono che stringe il cuore. Le strutture ci sono, ma senza cura e attenzione rischiano di diventare solo mura vuote, simboli di degrado più che di accoglienza.

Archiviata anche questa visita, domani mi aspetta una giornata impegnativa: sveglia all’alba per la chemio e, nel pomeriggio, via verso Massafra per la commissione invalidi. Chi conosce il codice 048 sa bene di cosa parlo: è un percorso che lascia segni profondi non solo nel corpo, ma anche nell’anima.

Spero di avere la forza fisica per affrontare tutto questo, perché sento che, man mano che i cicli avanzano, la fatica diventa più pesante. Incrocio le dita e guardo avanti.
A domani.

sabato 23 agosto 2025

📝 Diario di bordo n°32 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°32 – Agosto 2025
Navigare tra le tempeste globali e quelle interiori.

Il periodo storico che stiamo vivendo ha una pesantezza quasi palpabile. È come camminare su una faglia sismica: ogni giorno arrivano nuove scosse (geopolitiche, ambientali, sociali) che minacciano di far crollare quelle certezze che, forse ingenuamente, credevamo stabili.

Mentre scrivo, penso a mercoledì mattina: quinta seduta di chemioterapia. Un’altra tappa di questo viaggio che non ho scelto, ma che sto affrontando con la determinazione di chi sa che la vita, nonostante tutto, vale sempre la lotta. E forse proprio questo mio percorso personale mi fa guardare anche il mondo con occhi diversi: più attenti, più spogli di illusioni, ma anche più capaci di cogliere la bellezza nelle crepe.

Le guerre di oggi non sono più quelle raccontate nei libri di storia. Sono ibride, invisibili, si combattono nei cieli e nel cyberspazio, dentro le nostre case, nei nostri cellulari. Sono guerre che erodono la verità, che alimentano paura e odio. L’ombra di conflitti tra superpotenze e arsenali nucleari è tornata a farsi lunga, come un fantasma che credevamo sepolto con la Guerra Fredda.

E i disastri ambientali non sono più “eventi naturali”. Sono la fattura salata di decenni di progresso miope. Incendi, inondazioni, siccità: ogni fenomeno estremo è un campanello d’allarme che la politica sembra incapace di ascoltare. Siamo circondati da leader che preferiscono lo spettacolo al coraggio, la semplificazione al pensiero complesso. Li guardo da lontano e penso: noi cittadini stiamo pagando un conto altissimo per la loro inadeguatezza.

Eppure, se ho imparato qualcosa dalla malattia, è che il dolore può essere un crocevia. Non è mai solo una condanna: è anche un segnale, una possibilità di cambiamento. Così come la mia chemioterapia è al tempo stesso veleno e cura, anche questo momento storico è carico di potenzialità, se abbiamo il coraggio di guardare oltre il buio.

Siamo noi la chiamata all’azione. Non possiamo più delegare tutto. La politica è troppo lenta, troppo cieca. Tocca a noi: cittadini consapevoli, comunità resilienti, scienza, arte, cultura. Tocca a chi decide di non cedere all’oscurità, ma di accendere piccole luci, ogni giorno.

Il mondo è malato, come lo è il mio corpo, ma non è una condanna definitiva. Questa quinta chemio è solo un’altra tappa: amara, sì, ma necessaria. E in fondo credo che il nostro tempo sia così: un periodo di transizione dolorosa, in cui i vecchi paradigmi crollano e i nuovi faticano a nascere.

Forse la speranza non è aspettare un salvatore, ma costruirla pezzo dopo pezzo, insieme. Come in ospedale, dove ogni infermiere, ogni medico, ogni gesto gentile è una piccola fiamma che ti ricorda che non sei solo, così nella società le nostre scelte quotidiane possono essere scintille.

La luce non arriverà dall’alto, ma da ognuno di noi. Io, mercoledì, porterò il mio corpo in clinica e mi affiderò ancora una volta a quella sottile linea di veleno che cura. Intanto, scelgo di scrivere, di denunciare, di raccontare. Di credere che anche nella tempesta, ci sia sempre una rotta verso la luce.

venerdì 22 agosto 2025

📰 Leoncavallo e Casapound: non facciamo finta che sia la stessa cosa.

📰 Leoncavallo e Casapound: non facciamo finta che sia la stessa cosa.

Lo sgombero del Leoncavallo non può essere derubricato a semplice questione di ordine pubblico. Non è “un edificio occupato” da trattare come tutti gli altri. Il Leoncavallo è parte della storia culturale, sociale e politica del nostro Paese: decenni di iniziative artistiche, musicali, teatrali, sociali, di mutuo soccorso, di controinformazione. Un presidio che ha dato voce a generazioni di ragazzi e ragazze esclusi dalle vetrine ufficiali, uno spazio libero in cui si è costruita cultura dal basso.

Pensare di mettere sullo stesso piano il Leoncavallo e Casapound è un insulto all’intelligenza collettiva. Non solo perché la funzione sociale dei due luoghi è radicalmente diversa, ma perché dietro Casapound non c’è un patrimonio culturale condiviso, bensì un progetto politico che si richiama esplicitamente al fascismo. Uno spazio che non ha promosso inclusione, ma esclusione; non ha dato voce a chi non ce l’aveva, ma ha amplificato parole di odio e discriminazione.

Qualcuno sostiene: “se chiudono anche Casapound, allora va bene, pari e patta”. No. Non è così che funziona. Non siamo davanti a due occupazioni simmetriche da sgomberare per riequilibrare la bilancia. La questione non è di mera legalità formale, ma di sostanza: il valore sociale di un luogo non si misura con i metri quadri occupati, ma con ciò che in quegli spazi è stato costruito.

Il Leoncavallo ha dato cultura e socialità, Casapound ha coltivato divisione e nostalgia per un regime condannato dalla storia. Equiparare i due mondi significa cancellare le differenze tra chi ha seminato partecipazione e chi ha coltivato ideologie autoritarie.

Ecco perché non basta dire: “se chiudono anche Casapound allora va tutto bene”. Non va bene lo stesso. Perché resta la ferita di uno sgombero che non colpisce solo chi vive il Leoncavallo, ma un pezzo della memoria e del tessuto democratico del Paese.

La politica, quella seria, dovrebbe avere il coraggio di distinguere. Non tutto è uguale. Non tutte le occupazioni sono la stessa cosa. Non tutti gli spazi hanno lo stesso valore. Sgomberare il Leoncavallo non è stato un atto neutro: è stato un colpo a un pezzo di cultura libera.

🖋 GP

📝 Diario di bordo n°31 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°31 – Agosto 2025
Respiro avvelenato e bocche cucite. La fabbrica ringrazia.

A Statte il silenzio sulla ex ILVA e sui veleni in genere, è assordante. Un paese che vive a ridosso della fabbrica dei veleni, a ridosso di alcune discariche, e che dovrebbe essere tra i primi a urlare “basta!”, oggi sembra recitare la parte del manichino: fermo, immobile, bocca cucita.

Abbiamo le stesse polveri dei tarantini nei polmoni, gli stessi lutti nei cimiteri, ma non la stessa rabbia. 
Noi ci accontentiamo delle briciole: due frasi di circostanza, una pallida dichiarazione, e poi tutti a fare dietrofront come se niente fosse. 
Il coraggio, qui, è diventato un optional.
E allora la domanda è: perché?
Perché questo teatrino della prudenza ha il sapore di viltà?
Perché sembriamo più preoccupati di non disturbare i manovratori che di salvare la nostra pelle?
Forse qualcuno pensa che il cancro bussi educatamente alla porta solo degli altri?

La verità è che questa quiete non è dignità, è resa. È il silenzio complice di chi preferisce convivere con la puzza ed il male, piuttosto che mettere in discussione i padroni della degenerazione ambientale.
Statte tace. Ma quel silenzio pesa come un macigno: è la nostra firma sotto la condanna a morte lenta che ci portiamo addosso.

Ma non è troppo tardi. Da cittadini possiamo ancora alzare la testa, ribellarci a questo lassismo e gridare che la salute non è merce di scambio. 
Basta con le parole smorzate, basta con i passi indietro e la difesa di ufficio: o difendiamo la vita, o ci seppellirà il silenzio.
E a chi fa finta di non vedere, ricordo che a Statte hanno appena autorizzato il solito impianto di rifiuti, ammantato di verde.

📝 Diario di bordo n°30 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°30 – Agosto 2025
Il macigno che chiamano "asset".

Dicono che la ex ILVA è un asset strategico nazionale. Una colonna portante per l’Italia, senza la quale l’intero Paese crollerebbe come un castello di carte. Una favola patriottica buona per i comunicati stampa.
Eppure lo stesso Stato, che la definisce “strategica”, fa di tutto per venderla. Strategica per chi, allora? Per il Paese o per i bilanci dello Stato che non sa più dove metterla? Perché se è davvero così vitale, non si capisce il teatrino delle aste andate deserte, delle cordate fantasma, degli imprenditori che scappano appena vedono i conti e i costi ambientali. Nessuno vuole prendersi la patata bollente.
Il paradosso è questo: se fosse un asset davvero strategico, lo Stato la terrebbe stretta e ci investirebbe. Invece la tratta come un pacco indesiderato che gira da un corridoio all’altro, sperando che qualcuno abbia la dabbenaggine di firmare l’accettazione. Ma la raccomandata resta lì, nessuno la ritira.
Il gioco è scoperto: lo chiamano strategico solo per giustificare commissariamenti infiniti, deroghe su deroghe, soldi pubblici a pioggia. Una strategia, sì… ma per scaricare sulla collettività i costi sanitari, sociali e ambientali.
Le gare deserte raccontano una verità che i proclami non possono coprire: l’ex ILVA non è un asset, è un macigno. Non c’è più alcun “valore strategico”, se non quello di ricordarci che per decenni Taranto è stata sacrificata sull’altare di un’industria che oggi non vuole nessuno.
E allora la domanda resta lì, pungente: se è davvero strategica, perché venderla? E se non lo è, perché continuare a ingannarci con questo teatrino di bandi deserti e proclami roboanti?
Forse la vera strategia è una sola: guadagnare tempo, mentre i tarantini continuano a pagare con la salute e col futuro dei loro figli.

Alla fine il bluff è chiaro: la ex ILVA è “strategica” solo per la carriera di qualche politico che la brandisce come una clava elettorale. Per l’Italia è un peso, per Taranto una condanna, per i governi ... il gioco dell'oca. 
Strategico sì… ma solo per chi campa di slogan.

giovedì 21 agosto 2025

🗣 Milano e Taranto. Due città lontane, ma unite da un filo che lo Stato si ostina a non vedere.

🗣 Milano e Taranto. Due città lontane, ma unite da un filo che lo Stato si ostina a non vedere.
Da una parte lo sgombero del Leoncavallo, fatto con un trucco da ladri di notte, a trattativa in corso, con la boria di chi crede di avere in mano la “legalità” come manganello. Dall’altra la ex ILVA, che continua a sputare veleno da decenni, condannando generazioni di tarantini a vivere con la paura della malattia e della morte, nell’indifferenza di chi governa.

Che strano paradosso: si chiude con forza un luogo che ha dato vita a mezzo secolo di cultura dal basso, di musica, di socialità, di politica vissuta, di esperienze comunitarie libere e autentiche. Un presidio di umanità che, pur nelle sue contraddizioni, ha rappresentato ossigeno in una città asfissiata dal cemento e dai padroni della speculazione. E contemporaneamente si lascia aperta una fabbrica che è sinonimo di veleno, che ha avvelenato aria, terra e corpi, che ha prodotto ricchezza per pochi e tumori per molti.

Due pesi e due misure. Dove c’è vita, la si spegne, dove c’è morte, la si difende a ogni costo, in nome di un “interesse strategico nazionale” che ormai non convince più nessuno. 
Il Leoncavallo lo chiamano “problema di ordine pubblico”. L’ILVA invece “asset industriale da salvare”. 
Ma se davvero il compito dello Stato fosse difendere i cittadini, la scala dei valori sarebbe rovesciata: cultura e socialità da proteggere, fabbriche di morte da chiudere.

Nel 1989 e nel 1994, il Leoncavallo ha resistito e si è reinventato. Perché lo spirito di chi lotta per la giustizia sociale non muore con uno sgombero. A Taranto, invece, la resistenza è quella silenziosa e amara di chi continua a vivere accanto a un mostro che non gli lascia scelta. Anche qui, però, c’è uno spirito che non muore: quello di chi non si arrende, di chi crede che la città possa avere un futuro senza veleni.

Lo Stato farebbe bene a imparare: puoi sgomberare un centro sociale, puoi militarizzare una fabbrica, puoi comprare tempo e voti. Ma non puoi cancellare la memoria né spegnere lo spirito di chi ha deciso che la propria dignità non è in vendita.

🖋 GP

📝 Diario di bordo n°29 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°29 – Agosto 2025
Le onde di Taranto: la rivoluzione silenziosa di PeaceLink.

C’è un vento che soffia da più di trent’anni su Taranto. Non porta fumi né veleni, ma pagine di verità, dati, rapporti, inchieste. È il vento di Peacelink, nato nel 1991 da un gruppo di visionari, tra cui Alessandro Marescotti, con l’idea che la conoscenza dovesse essere libera e che l’informazione potesse diventare arma di riscatto.

Erano anni difficili: pochi mezzi, qualche computer, e tanta ostinazione. Ma quell’ostinazione ha fatto strada. Abbiamo creduto che una piccola associazione potesse parlare al mondo, raccontare i drammi ambientali e sociali di un mondo ferito, e lo abbiamo fatto. Ho scritto abbiamo creduto, perchè orgogliosamente, tra quei visionari c'ero anche io.

Oggi Peacelink è ancora qui, e il suo presidente, Alessandro Marescotti, continua a riversare a piene mani coraggio e coscienza in questa terra che tutti dicono condannata. Con la tenacia di chi non accetta compromessi, Alessandro ha trasformato numeri e analisi in voci che scuotono le coscienze. Nessun clamore, nessuna vetrina, ma la forza tranquilla di chi non si stanca di dire la verità.

Una di queste onde si chiama cittadinanza attiva. Quella fatta non di slogan o passerelle, ma di mani sporche di impegno e teste piene di coraggio. Qui entra in scena Peacelink, un’associazione che non ha bisogno di fuochi d’artificio per farsi notare: parla con la voce ferma dei dati, delle denunce documentate, dei report che aprono gli occhi. E lo fa non solo per Taranto, ma per un intero Paese che troppo spesso preferisce guardare altrove.

Il presidente Marescotti, con la pazienza di un artigiano e la tenacia di chi ha deciso di non arrendersi mai, riversa a piene mani conoscenza, coscienza e speranza. È come se ti dicesse: “La verità non fa rumore, ma se la sai ascoltare, ti cambia la vita”. E in un territorio come il nostro, dove la verità è spesso nascosta sotto tonnellate di fumo e polvere, questa non è cosa da poco.

Peacelink ha insegnato che cittadinanza attiva significa non aspettare il salvatore, ma diventare noi stessi motore del cambiamento. Non sudditi, non spettatori, ma protagonisti. È così che una piccola realtà nata a Taranto ha parlato all’Italia e al mondo, mostrando che anche da un angolo di dolore possono alzarsi onde di speranza.

Eppure, diciamocelo, non basta. Non basta denunciare, non basta indignarsi per qualche giorno sui social. Bisogna mettersi in cammino, insieme. La storia ce lo ha già mostrato: quando i tempi erano bui, c’è chi ha avuto il coraggio di isolare i violenti, dire con fermezza “non in nostro nome”, anche a costo di perdere consensi facili. Oggi serve la stessa lucidità: prendere posizione netta per il bene comune, non per i calcoli di bottega.

Taranto non è solo ciminiere e tumori. È anche lotte, resistenza civile, amore ostinato. È anche Peacelink, che con i suoi volontari accende fiammiferi di luce nel buio dell’indifferenza.

E allora la domanda finale non riguarda più solo i potenti o i palazzi. Riguarda noi. Perché Taranto ha già sofferto come un corpo malato, ma come ogni corpo può ancora guarire, se il sangue che la percorre — cioè noi cittadini — smette di restare immobile.

Il futuro non si attende, si costruisce. E se non lo costruiamo noi, nessuno lo farà per noi.

💬 Chi ha scosso la brocca?

💬 Chi ha scosso la brocca?

A Taranto la brocca l’hanno scossa da un pezzo. Dentro ci hanno infilato cittadini e operai, salute e lavoro, madri che seppelliscono figli e figli che crescono senza padri. 
All’inizio, tutti convivevano nello stesso "vetro", magari stretti, ma insieme. Poi è bastato un colpo secco: governi, multinazionali di passaggio, commissari che sanno solo contare i giorni in carica. Ed eccoci qui, operai contro comitati, come formiche cieche che si sbranano a vicenda.

Ma la verità è lampante: il nemico non è chi lavora in fabbrica, né chi protesta fuori dai cancelli. Il nemico è chi racconta favole di “strategicità nazionale”. Così strategico che lo mettono in vendita a ogni stagione, come un frigorifero guasto. Intanto i tumori non vanno all’asta: restano qui, piantati nelle statistiche, negli ospedali, nelle famiglie.

E allora diciamolo senza ipocrisie: c’è una parte di Taranto che non ci sta più. Non vuole scegliere se morire di cancro o di fame. Non vuole più subire decreti scritti a Roma e lacrime asciugate a Bari. Questa parte della città ha deciso che non vale nessuna busta paga, nessun “strategico”, nessun tavolo ministeriale il prezzo della pelle dei propri figli.

Il paradosso è che chi lotta per non ammalarsi viene dipinto come il guastafeste, come quello che “non capisce l’economia”. Ma la vera economia di Taranto la conoscono solo le famiglie che hanno già pagato con il sangue.

Perciò la domanda resta: chi ha scosso la brocca? Forse chi ha avuto il coraggio di dire basta? O chi da decenni ci agita dentro come formiche da laboratorio? La risposta non consola, ma chiarisce una cosa: le formiche hanno smesso di farsi fregare.

🖋 GP

mercoledì 20 agosto 2025

📝 Diario di bordo n°28 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°28 – Agosto 2025
Non siamo soli… ma siamo troppi.

C’è una cosa che mi ha colpito ieri: la quantità di messaggi ricevuti. Abbracci virtuali, parole di forza, pezzi di vita condivisi da chi ha già fatto un giro sulla stessa giostra o lo sta facendo adesso.
È una sensazione intensa, quasi commovente: scoprire che non sei solo, che c’è una comunità invisibile che ti sostiene.

Eppure, insieme a questa luce, si insinua un’ombra: scopro che non sono il solo, appunto. Siamo in troppi. Troppi a portare cicatrici, flebo, pillole, paure. Troppi a passare davanti a quella Madonnina chiedendo forza. E allora la domanda diventa inevitabile: perché?

Perché ci ammaliamo in così tanti, in questo lembo di terra che dovrebbe essere un paradiso e invece è trattato come pattumiera a cielo aperto?
Perché continuiamo ad avvelenare aria, acqua e terra sapendo benissimo cosa ci stiamo bevendo, respirando, mangiando?
E soprattutto: perché quelli che dovrebbero rappresentarci — quelli che ci riempiono le orecchie di promesse e slogan — restano muti, inerti, complici?

Si riempiono la bocca di parole come sviluppo, salute pubblica, transizione ecologica. Ma alla prova dei fatti sembrano più interessati a perpetuare se stessi, le proprie poltrone e le proprie convenienze. Noi cittadini? Statistiche da esibire, corpi da sacrificare, voci da spegnere.

Siamo diventati i figuranti di un teatro dell’assurdo dove i politici fingono di preoccuparsi e gli industriali fingono di essere sostenibili. Intanto noi, sotto flebo e pasticche, ci chiediamo quante generazioni ancora dovranno pagare questo scempio.

E la domanda resta sospesa, bruciante: perché?
Perché continuano a farci ammalare? Perché continuiamo a permetterlo?
E soprattutto: perché chi dovrebbe difenderci ci ha già dimenticati?

E allora sì, continuiamo pure a chiamarla “terra dei due mari”, ma con la postilla: uno di lacrime e l’altro di veleni.
La verità è che non ci hanno dimenticati: ci hanno messi in preventivo.
Perché, in fondo, siamo diventati il loro bilancio collaterale: qualche centinaio di malati in più, qualche funerale in più… tanto i conti li paghiamo sempre noi.

E allora la domanda non è più perché loro lo fanno, ma fino a quando noi resteremo zitti a lasciarglielo fare.

martedì 19 agosto 2025

📝 Diario di bordo n°27 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°27 – Agosto 2025
La giostra della terapia e delle discariche.

Sveglia presto, come sempre. Pillola per lo stomaco, compressa per la pressione e il caffè bollente che ormai sa più di rito che di piacere. Pronto per la giostra del giorno: il quarto ciclo. All’andata, per scaramanzia o per cocciutaggine, guido sempre io. Arriviamo in clinica alle 7: porte chiuse. Un cartello: “Si entra alle 7,30”. Evabbè, pazienza.

Alle 7,30 spaccate si aprono le porte. Salgo le scale, come sempre passo dalla Madonnina — fedele guardiana silenziosa che in ogni ospedale o clinica trovi nascosta in un angolo, a ricordarci che la speranza non ha bisogno di grandi altari, basta uno sguardo. Poi il reparto. Svolto il corridoio e... sorpresa: dieci persone già in coda. Ma da dove sono sbucati? Mistero della fede… o della logistica ospedaliera.

Arriva Sabrina, l’infermiera tuttofare, che con la destrezza di un vigile a piazza Venezia smista i pazienti sui lettini. Io mi accomodo, pronto per la solita corsa in giostra.

E mentre scorrono i medicinali, scorrono anche i pensieri. Perché racconto tutto questo? Per piagnisteo? No. Per collezionare like? Neanche. Racconto perché conoscere è importante. Perché raccontare aiuta a sapere come smontare la paura, a riderci sopra, a guardare il mostro negli occhi e dirgli: “Oggi guidi tu, ma domani torno io al volante.”

E poi c’è il conforto vostro, delle vostre parole, dei messaggi, delle carezze virtuali che non sono mai finte. Perché quando si lotta, la vera cura è non sentirsi soli.

Ma mentre io combatto qui, sul mio lettino, penso al mio paese, Statte. Penso a quella nuova “invenzione”: un ulteriore impianto per il “recupero e valorizzazione dei rifiuti”. 
Tradotto: una discarica. 
L’ARPA ha detto no, pericolosa per salute e ambiente. Ma la Provincia dice sì. 
E noi? Noi che viviamo già stretti fra ex-ILVA, discariche, emissioni, polveri, tumori… dovremmo pure ringraziare?

E intanto, i nostri politici locali? Fantasmi.
I partiti? Mutissimi. 
Il solito copione: chi dovrebbe difenderti, ti lascia al tuo destino.

Basta. Abbiate pietà. Taranto non è un sacrificio da offrire sull’altare del profitto. Taranto e i tarantini hanno già pagato abbastanza.

Perdonate questo sfogo. Ma quando è troppo, è troppo.
E ricordatevi una cosa: qui non ci sono vittime rassegnate. Qui c’è un popolo che, anche se ferito, resiste. Perché noi tarantini non abbiamo scelto la lotta… ma la lotta ha scelto noi.

E vi garantisco che non molleremo mai.
E nel frattempo scrivo ... 🖋

giovedì 14 agosto 2025

Un ponte tra generazioni: perché l'Italia ha bisogno urgente di case condivise intergenerazionali.

👥️ Un ponte tra generazioni: perché l'Italia ha bisogno urgente di case condivise intergenerazionali.

I numeri parlano chiaro, e gridano un doppio disagio sociale: oltre il 40% degli over 65 italiani vive in solitudine, mentre migliaia di studenti lottano ogni giorno per trovare un alloggio dignitoso a costi accessibili. Sono due fragilità che si specchiano l'una nell'altra, due emergenze – quella della solitudine senile e quella della crisi abitativa giovanile – che paralizzano il presente e ipotecano il futuro del Paese. Eppure, esiste un'idea concreta, umana e già sperimentata con successo altrove, che potrebbe trasformare questo problema in una risorsa: le abitazioni intergenerazionali.

L'immagine è semplice, potente e rivoluzionaria: un anziano con una stanza vuota in casa e il desiderio (o bisogno) di compagnia; uno studente in cerca di un tetto e disposto a offrire presenza, ascolto e un aiuto nelle piccole cose quotidiane. Non si tratta di assistenza unidirezionale, né di beneficenza. 
È reciprocità pura. È convivenza responsabile basata sullo scambio: sicurezza abitativa contro compagnia, esperienza contro energia fresca, radici contro prospettive.

Perché allora, in Italia, questa soluzione fatica a decollare su larga scala, restando confinata a pochi lodevoli progetti pilota? 
Le ragioni sono complesse, ma non insormontabili:

1.  Resistenza culturale: Siamo un Paese con una forte tradizione familiare "chiusa". L'idea di aprire la propria casa a uno sconosciuto, per quanto bisognoso, può suscitare diffidenza. Occorre un cambio di mentalità, passando dalla paura dell'"estraneo" alla cultura dell'accoglienza reciproca e della comunità.

2.  Mancanza di un quadro normativo semplice e sicuro: Come regolamentare questi accordi? Come tutelare entrambe le parti (diritti/doveri, aspetti contrattuali, sicurezza, risoluzione conflitti)? 
La mancanza di un percorso chiaro e snello frena molti potenziali partecipanti e istituzioni.

3.  Assenza di una rete di supporto solida: 
I progetti di successo all'estero (Germania, Olanda, Spagna, Francia) funzionano grazie a enti no-profit, comuni o cooperative che fanno da "facilitatori": abbinano le persone, offrono mediazione, supporto logistico e talvolta un piccolo contributo. In Italia, queste strutture sono ancora poche e frammentate.

4.  Sottovalutazione politica e mediatica: Nonostante l'evidenza del doppio problema, il tema raramente trova spazio nei dibattiti pubblici e nell'agenda politica con la forza che meriterebbe. Si preferisce spesso il "rimpallo delle responsabilità" alla ricerca di soluzioni innovative e a basso costo.

Eppure, i vantaggi sono innegabili e molteplici:

▪️Combattere la solitudine: Offre agli anziani compagnia quotidiana, stimoli mentali, un senso di utilità e maggiore sicurezza in casa.
▪️Ridurre la crisi abitativa: Fornisce agli studenti una sistemazione a costi molto contenuti (spesso simbolici) in cambio di tempo e piccoli aiuti.
▪️Creare reti sociali: Rompe l'isolamento, crea legami inaspettati e rafforza il tessuto comunitario del quartiere.
▪️Scambio culturale e umano: Giovani e anziani si arricchiscono vicendevolmente, condividendo esperienze, storie, competenze e punti di vista sul mondo.
▪️Alleggerire il welfare: È una soluzione dal basso, a costo quasi zero per lo Stato, che può alleviare la pressione sui servizi sociali dedicati alla solitudine senile.

▫️Cosa serve per far decollare questo modello in Italia? Proposte concrete:

1.  Legge quadro regionale/nazionale: Definire un quadro normativo semplice che riconosca e regolamenti i contratti di convivenza intergenerazionale, tutelando diritti e doveri di entrambe le parti (durata, contributi, recesso, assicurazioni).

2.  Sostegno ai facilitatori: Finanziare (anche con fondi europei) e potenziare il ruolo di enti no-profit, cooperative sociali o servizi comunali dedicati a:
    ▪️Abbinare anziani e studenti con criteri chiari (interessi, esigenze, compatibilità).
    ▪️Offrire mediazione: Supporto nella stesura di accordi chiari e nella risoluzione di eventuali conflitti.
    ▪️Fornire supporto: Controlli periodici, linee guida, formazione base per entrambe le parti.

3.  Incentivi fiscali mirati: Agevolazioni (es. detrazioni) per gli anziani che mettono a disposizione una stanza in regime di convivenza intergenerazionale regolamentata.

4.  Campagne di sensibilizzazione: Informare cittadini, amministratori locali e operatori sociali sui benefici e sul funzionamento del modello, sfatando pregiudizi e paure.

5.  Mappatura e replicabilità: Identificare, sostenere e far conoscere i progetti pilota già esistenti in Italia (Torino, Milano, Bologna, ecc.) per diffondere best practices e lezioni apprese.

Rimettere insieme giovani e anziani sotto lo stesso tetto non è un'utopia romantica, ma una strategia sociale pragmatica e profondamente umana. 
È un modo per trasformare due vulnerabilità in un'opportunità concreta di benessere individuale e collettivo. È un investimento sul capitale sociale più prezioso: le relazioni autentiche. Di fronte a dati così allarmanti di solitudine e disagio abitativo, continuare a ignorare questa soluzione o relegarla a esperimento marginale non è solo miopia: è un fallimento della politica e della società nel prendersi cura dei propri cittadini. È ora di passare dai dibattiti sterili ai fatti, costruendo ponti concreti tra generazioni, una stanza alla volta. Il futuro delle nostre città e il senso stesso dell'abitare ne hanno urgente bisogno.

martedì 12 agosto 2025

📝 Diario di bordo n°26 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°26 – Agosto 2025
"Gli zerbini dei potenti e l’aria che scotta"

Il sole di agosto non perdona. Ma nemmeno io.
Oggi non possiamo restare accomodanti con i “potenti” e compiacenti verso i politicanti impettiti come se avessero la chiave del destino di Taranto. 
Questa mattina Taranto vive un tempo sospeso, come se qualcuno avesse premuto il tasto “pausa” sulla dignità di un’intera comunità. 
Ci parlano di “sviluppo” e “progresso”, ma ci chiedono in cambio di respirare ancora per anni l’aria di un passato che ci ha già presentato un conto altissimo in termini di salute e futuro.
Il futuro pensano di deciderlo altrove, in stanze dove il sudore non è quello del lavoro e il dolore quello della malattia, ma semplicemente è quello delle poltrone di pelle.

Sveglia alle 8. Alle 10 mi aspetta un altro round di chemio.
Protezione gastrica, caffè e, per non sfidare troppo lo stomaco, due grissini torinesi buttati giù con mezzo litro d’acqua. La notte? Inutile parlarne. I pensieri hanno corso una maratona e io ero l’unico spettatore obbligato.

Arrivo in clinica. L’aria è già calda, ma non sarà certo il termometro a fermarmi.
Sabrina, l’infermiera, mi indirizza nella solita stanza. Due letti. Stavolta, però, il mio compagno di viaggio non c’è. Tocca a me, da solo, passare quelle due ore di siero e silenzi.

Accendo il telefono e mi sintonizzo sulla diretta Facebook: conferenza di Giustizia per Taranto e PeaceLink.
Sandro Marescotti, con la sua calma feroce, snocciola verità come proiettili. Non sbaglia un colpo. Lo conosco da una vita e so che di lui ci si può fidare senza riserve. Sta lottando come un leone. Anche per me.
Gli occhi mi si riempiono. Non di debolezza, ma di riconoscenza.

Tre ore dopo, ho terminato la chemio. 
Mi alzo. Barcollo. Questo giro mi ha preso a schiaffi.
Mio figlio mi afferra per un braccio, scendiamo le scale. Fuori, la città è una fornace.
Si torna a casa.

In macchina penso a chi lotta. C’è chi lo fa in piazza, chi da un letto d’ospedale, chi in fabbrica, cercando di difendere il suo posto di lavoro, pur sapendo che quel “mostro” lo sta avvelenando. Ma lotta lo stesso.
A Taranto, la lotta non è una scelta. È un riflesso, come respirare.
E fino a quando ci sarà anche un solo tarantino disposto a resistere, il “mostro” non dormirà mai sonni tranquilli.

lunedì 11 agosto 2025

📝 Diario di bordo n° 25 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n° 25 – Agosto 2025
"Quando il destino decide di divertirsi a tue spese"

Un’estate indimenticabile, dicevano.
Caldo, mare, granite e qualche serata con il vento buono… 
Tutto potevo immaginare, tranne quello che mi è piovuto tra capo e collo.
Ma noi tarantini certe “sorprese” dobbiamo metterle in preventivo: se piove, non è acqua, è polvere rossa; se tira vento, non è aria, è un bouquet chimico gentilmente offerto dall’industria pesante. E se finalmente splende il sole, e pensi di respirare… stai solo annusando la prossima batosta.

Ma quest’anno, oltre alle “specialità” locali, ci si è messo pure il caro vacanze.
Gli stabilimenti balneari hanno trasformato l’ombrellone in un lusso da collezionisti, il gelato è diventato un investimento a medio termine e un panino sul lungomare ti fa chiedere se non sia ripieno di lingotti.
Il potere d’acquisto delle famiglie? Un ricordo sbiadito. Ormai è più facile trovare una conchiglia intatta a San Vito che una famiglia che possa permettersi una settimana di ferie senza andare in rosso in banca.

E così ti ritrovi a fare vacanze “alternative”: giardino di casa, sedia di plastica, ventilatore anni ’90 e vista mozzafiato… sul giardino del vicino. 
Oppure il grande classico tarantino: uscita serale “a prendere il fresco” che dura venti minuti, giusto il tempo di sentire la puzza e tornare indietro bestemmiando tra sé e sé.

Perché la verità è questa: l’estate, qui, non te la godi… la sopravvivi.
Tra le batoste economiche e quelle ambientali, ti arrivano addosso come una raffica di schiaffi a cielo aperto. E tu, che potresti anche incazzarti, alla fine alzi il sopracciglio e vai avanti.

Ma poi arriva sera. Il sole scende piano sulla città e il cielo si accende di arancio, rosso e oro.
E in quell’istante, Taranto ti strega di nuovo. Ti ricorda che, nonostante tutto, lei è capace di regalarti tramonti che non trovi in nessuna brochure, emozioni che non hanno prezzo e un amore che nessuna crisi, nessuna fabbrica e nessuna batosta riuscirà mai a spegnere.

E mentre resti lì, con gli occhi pieni di bellezza, qualcuno da Roma pensa bene di chiedere ai tarantini un altro sacrificio, un’altra “pazienza”, un’altra ferita per il caso ILVA.
Bene, cari signori: di sacrifici qui ne abbiamo fatti abbastanza. Non vi azzardate a chiedercene ancora. Il pugno sul tavolo lo sbattiamo noi, questa volta.

sabato 9 agosto 2025

📝 Diario di bordo n°24 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°24 – Agosto 2025
“Vacanze (im)possibili, Taranto imprigionata e promesse evaporate”

Siamo arrivati al limite, e non è il limite geografico di Lampedusa o di Capo Nord: è il limite della pazienza.
Fare le vacanze, oggi, per una famiglia media è diventato come vincere alla lotteria: un sogno, ma senza il biglietto vincente. Spiagge dorate? Sì, ma solo quelle nei cataloghi patinati delle agenzie. Alberghi? Con le tariffe che girano, ti conviene farti adottare da un resort.

E mentre gli italiani contano le monete per un gelato, c’è ancora chi difende questo governo con l’entusiasmo di un tifoso da curva sud… peccato che la squadra giochi sempre in difesa, e per di più nella porta sbagliata.

Ah, e poi la chicca dell’estate: i dazi di Trump. Un’altra mazzata, tanto per assicurarsi che quel poco di potere d’acquisto che ci restava finisca sotto la sabbia, insieme ai castelli dei bambini.

Nel frattempo, Taranto resta lì, incatenata alle sue ciminiere come un ergastolano al palo.
Le vacanze per noi tarantini hanno sempre un retrogusto amaro: puoi anche andare al mare, ma sai che a due passi c’è chi continua a sfornare polveri e veleni, con la complicità di chi governa e la distrazione di chi dovrebbe vigilare.
Si parla di turismo e di rilancio, ma nessuno mette in conto che respirare aria pulita è il primo biglietto per una vacanza vera.

E mentre riflettevo su tutto questo, ecco la notizia bomba: l’ASL di Taranto mi ha convocato per una visita presso la sua commissione.
Mi immagino la scena: loro che mi scrutano, io che respiro come un mantice e penso “Volete sapere come sto? Uscite un’ora all’aria aperta qui e poi ci raccontiamo chi ha bisogno della visita”.
In fondo, a Taranto, l’unica commissione che dovrebbero convocare è quella per valutare la salute dell’aria… ma per quella servirebbe una cartella clinica troppo spessa per passare dalla porta.

In qualche cassetto del ministero, intanto, c’è ancora l’ologramma della promessa più famosa d’Italia: il taglio delle accise. Promessa vista più volte di Babbo Natale, e con la stessa probabilità di vederla realizzata. Gli italiani aspettano… e aspettano… mentre il governo si esercita nello sport nazionale preferito: dare la colpa agli altri.

📊 Rendicontazione per memoria storica:

▪️Taglio accise: non pervenuto.
▪️Sostegno alle famiglie: irreperibile.
▪️Riduzione costi vacanze: Santanchè e i diari di  fantascienza.
▪️Risanamento Taranto: archiviato con polvere.
▪️Visita ASL: in arrivo, portate i pop-corn.
▪️Colpe altrui: illimitate e sempre disponibili.

Cari italiani – e cari tarantini – preparatevi: tra un po’ ci venderanno l’aumento dei prezzi come “esperienza premium”, l’inquinamento come “patrimonio industriale” e la mancanza di ferie come “vacanza a chilometro zero”. E noi, se non apriamo gli occhi, resteremo turisti del nostro stesso portafoglio vuoto… e prigionieri della nostra stessa aria, in attesa di una visita… che non guarisce nessuno.

📝 Diario di bordo n°23 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°23 – Agosto 2025
"La discarica dei fantasmi (ma i fantasmi hanno la partita IVA)"

Oggi, mentre molti si godono la granita dell’estate, è arrivata la notizia che a Statte – proprio qui – è stato confermato il sequestro di 700 mila metri quadri di terreno dell’ex Ilva.
Un tappeto velenoso di 5 milioni di tonnellate di rifiuti industriali. Fanghi, polveri, scarti tossici accatastati per anni come se il nostro territorio fosse una pattumiera senza fondo.

Non è roba nuova: il sequestro è del 2018. Solo che oggi ce lo ricordano, come a dire: “Ah, già, esiste anche questa bomba ecologica…”. E così, tra un selfie e un mojito, passa tutto in sordina.

Io, invece, non ci passo sopra.
Perché qui non si tratta di fatalità, ma di scelte. Qualcuno ha deciso di buttare lì quella roba. Qualcuno ha chiuso gli occhi. Qualcuno ha intascato.
E siccome in Italia la colpa è sempre di “tutti” e quindi di “nessuno”, i veri responsabili continuano a farsi vedere ai convegni sull’ambiente, con la cravatta e la faccia di bronzo.

In mezzo ci siamo noi, cittadini di due Comuni – Taranto e Statte – legati da un destino comune, eppure ancora divisi da interessi, paure, convenienze.
C’è chi finge di non sapere, chi sa ma tace, e chi urla nel vuoto.

La verità è che questa discarica non è un incidente del passato, ma un marchio indelebile sul presente.

E allora lo scrivo qui, nero su bianco: la memoria non è un vezzo, è un dovere.
Perché queste montagne di rifiuti non sono cadute dal cielo. Qualcuno le ha fatte crescere. Qualcuno ha chiuso gli occhi. Qualcuno ha incassato.

Il guaio è che quel "qualcuno" ha sempre un nome e un cognome. Ma finché restano coperti dal comodo plurale di un “si è fatto” o “si è lasciato fare”, l’unico responsabile sarà sempre e solo un fantasma.

E i fantasmi, lo sappiamo, non finiscono mai sotto processo.

giovedì 7 agosto 2025

📝 Diario di bordo n°22 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°22 – Agosto 2025
"La rabbia e la flebo. Tra veleno e dignità."

Si continua, imperterriti, in questa torrida estate del 2025.
Un’estate che ha deciso di farmi compagnia con l'ospite indesiderato.
Uno arrogante, presuntuoso, che si è installato dentro di me come certi parassiti in politica: non invitato, ma pretenzioso.
Ha fatto il suo ingresso in silenzio, ha preso posto senza bussare, e ora pensa di dettare legge.
Ma ha sbagliato indirizzo.
Questa è casa mia. E qui dentro non si comanda senza resistenza.

Le giornate non si contano più in ore. Si misurano in flebo, in parole sospese tra un “vediamo” e un “speriamo”.
Ma io ho deciso: non sarò un paziente paziente.
Ferragosto lo festeggerò così: con la dignità che non si piega, con la schiena dritta, con lo sguardo puntato oltre la malattia.
Non ci sarà carne alla brace, ma carne viva che lotta.
Perché la speranza non è una poesia sdolcinata, è una marcia armata di tenacia.

Nel frattempo, mi viene da pensare.
E quando penso, spesso mi arrabbio.
Perché mi torna in mente quella stagione in cui la parola "rappresentanza" era sacra, non il gioco di ruolo dei dilettanti di oggi.
C’è stato un tempo, nei giorni bui e piovosi degli anni di piombo, in cui chi rappresentava i lavoratori scelse da che parte stare.
E non fu facile.
Si oppose, isolò i violenti, disse parole nette. Non per convenienza, ma per coscienza.
Fu una scelta che costò, che divise, che mise a rischio carriere e consensi.
Ma fu la scelta giusta. Una scelta con "le palle".
Una lezione scolpita nella memoria, per chi oggi ha ancora la decenza di studiare la storia prima di indossare la giacca e parlare da un palco.
Mi chiedo: dov’è oggi quel coraggio?
Dov’è la voce che grida “basta” quando tutto intorno si sussurra per paura di perdere un applauso facile?
Dove sono i custodi del futuro, quelli che sanno rinunciare a un tornaconto per difendere una verità?

Taranto non è solo una città.
È una ferita aperta nel corpo dell’Italia.
È una madre che partorisce figli già condannati, è un operaio che sa che il suo pane ha il sapore del veleno.
È un grido strozzato da troppe firme, troppi decreti, troppi silenzi.

Eppure Taranto è anche una culla di dignità.
Una terra che ha già dimostrato cosa significa rialzarsi.
Che conosce il sudore, la lotta, la pazienza e la rabbia.
È fatta di gente vera, che non ha bisogno di leader, ma di guida.
Di chi ha il coraggio di dire:
“Andiamo oltre.
Basta con l’industria della morte.
Rifacciamo la città con le mani pulite.
Salviamo i lavoratori e non solo i posti di lavoro.
Costruiamo progetti con la parola ‘vita’ scritta sopra.”

Per farlo serve unità. Serve lucidità. Serve scegliere.
Serve anche lasciar andare chi rema contro, chi si attacca al potere come la cozza allo scoglio e pensa che rappresentare qualcuno significhi coltivare clientele.
Apriamo gli occhi. Ma soprattutto: riaccendiamo il cervello.
Perché l’onestà non è una dote ereditaria.
È una scelta quotidiana.
E chi non ha il coraggio di farla, non solo tradisce, ma si spegne come una candela in una stanza piena di vento.

Taranto, figlia del ferro e dell’orgoglio,
non piegarti ai profeti della rassegnazione.
Alzati, città dalle mille battaglie,
e torna a cantare con voce piena,
non più il lamento,
ma l’inno di chi ha scelto la vita.
Perché non c’è tumore che tenga,
quando un popolo si sveglia e decide di guarire.

... e mentre la lotta va avanti, tra flebo e parole sospese, il ministro Urso ci regala l’ultima perla.  
Quella che, in un paese serio, sarebbe già virale con l’hashtag #dimissioni, ma qui da noi finisce in archivio tra le «curiosità» della rete.  

L’illustrissimo ministro – che con l’ILVA di Taranto c’entra come i cavoli a merenda – ha comunque voluto lasciare il segno.  
Parlava di industria, di produzione, di rilancio. Poi, con la sicurezza di chi confonde una catena di montaggio con un campo di grano, ha sparato:  
"Attualmente il nostro Paese ospita una delle fattorie ..."

Fattorie. 🫣
Non factories, no. Fattorie.
Come se la Fiat di Mirafiori fosse un agriturismo, e la Whirlpool di Napoli una stalla con annessa produzione di mozzarelle.  
Come se gli operai, invece di scioperare per i diritti, dovessero protestare per la mancata distribuzione di secchi per la mungitura.  

Ecco, Ministro, questa è la metafora involontaria della sua classe:  
Un’Italia che da potenza industriale si trasforma in un presepe a cielo aperto.
Dove i ministri giocano a fare i contadini, i lavoratori diventano comparse,  
e le uniche cose che crescono davvero sono le risate amare e i tumori.  

Ma sa una cosa? Noi qui ridiamo ancora.  
Perché se la politica è diventata una factory di buffonate,  allora è meglio essere fattori della propria dignità.  
E quando verrà il momento del raccolto,  
state certi che la zappa la impugneremo noi.  
Per dissodare non la terra, ma la vergogna.  

#FattorieUrso – L’Italia che coltivi (male) e raccogli (peggio).👇

domenica 3 agosto 2025

Taranto, la città dello scontro eterno.

Taranto, la città dello scontro eterno.

A Taranto si continua a respirare – e non è solo un modo di dire – il solito scontro tra ambientalisti sì e ambientalisti no, pro-ILVA e anti-ILVA, salute o lavoro. Una partita a scacchi dove le pedine, purtroppo, si ammalano, e i re e le regine sono sempre fuori scacchiera, lontani da fumi e sirene.

Da quel fatidico 2012, con il sequestro degli impianti da parte della magistratura, la questione è deflagrata come un altoforno impazzito: da allora è tutto un crescendo – ma non di bellezza, bensì di contrapposizione. Taranto è diventata il palcoscenico di uno scontro ideologico e sociale che si consuma ogni giorno nei bar, nei consigli comunali, nei social, e perfino nei corridoi degli ospedali.

Ci sono quelli che ti dicono: “Ma guarda che non è solo l’ILVA che inquina, eh! Ci sono anche le navi, il porto, la raffineria, il traffico, perfino i barbecue abusivi!”. Certo, è vero. Ma se una persona muore di tumore, gli vogliamo chiedere la fonte esatta di emissione delle PM10 nel suo alveolo polmonare?

E poi ci sono quelli che ti rispondono con l’altra frase cult: “Eh, ma se chiude l’ILVA, dove vanno a lavorare 16.000 persone?” – come se vivere in un forno tossico fosse un bonus sullo stipendio. Come se non esistessero modelli di riconversione, di economia sostenibile, come se il futuro fosse scritto a fuoco su una ciminiera.

Il risultato? Cittadini contro cittadini, amici contro amici, parenti contro parenti. Come se chi si batte per la salute volesse vedere tutti disoccupati e chi difende il lavoro godesse a respirare diossina. No, il problema è che la politica ha abdicato al suo ruolo di mediatore e progettista di futuro, scaricando tutto sulle spalle dei tarantini, costretti a scegliere tra campare o morire lentamente.

In questo teatro tragicomico, ci vorrebbe una narrazione nuova. Una che unisca. Una che dica: “Salute e lavoro non sono incompatibili, ma richiedono visione, coraggio e investimento”. Ma al momento ci accontentiamo di vedere gli ambientalisti dipinti come “radical chic col pollice verde” e gli operai come “fanatici del posto fisso a qualsiasi costo”. Stereotipi che piacciono molto a chi preferisce che nulla cambi.

Intanto Taranto aspetta. Aspetta giustizia, verità, e soprattutto una vera transizione giusta. Non una finta riconversione a suon di convegni e slide PowerPoint.

E intanto... ci sono i polmoni dei bambini che si ammalano con la diossina, mentre giocano nella terra rossa di minerale velenoso di questa terra ferita.
Senza chiedersi da che parte stare. Perché stanno dalla parte della vita.

🖋 GP

📝 Diario di bordo n° 21 – agosto 2025

📝 Diario di bordo n° 21 – agosto 2025
 "Temptation Taranto – falò di finzione"

A Taranto va in scena una tragicommedia che ormai non fa più nemmeno ridere. Il titolo? “Tutti contro tutti – special edition”. La regia è collettiva: ognuno recita il proprio copione, rigorosamente scollegato da quello degli altri, e nessuno, ma proprio nessuno, sembra voler affrontare la vera questione: l’ex ILVA.

C’è da prepararsi a un altro appuntamento cruciale, fissato per il 12 agosto. Una data che dovrebbe scuotere coscienze e smuovere montagne di responsabilità. E invece… niente. Silenzio. Sparsi qua e là, tra social e interviste, molti  dei nostri politicanti locali si esercitano nell’antica arte del dribbling istituzionale. L’unica partita che giocano è quella del non detti, del non visti e del non presenti. Alcuni sono talmente bravi a non nominare l’ILVA che se li cerchi per strada ti passano accanto come se fossero personaggi non giocanti di un videogioco: stanno lì, ma non servono a nulla.

Poi c’è chi, nella penombra del palcoscenico, riappare all’improvviso, giusto il tempo per lanciare invettive da teatrino contro l'avversario del momento, magari su argomenti che oggi, francamente, interessano meno di una zanzara a dicembre. Ma va bene così: ognuno ha il suo piccolo falò, il suo momento di confronto. Anzi, verrebbe da dire: confrontino. Si sbraitano addosso come in una puntata di Temptation Island, ma senza neanche la passione finta. Solo tanto, tantissimo vuoto politico.

Nel frattempo, la città aspetta risposte, gli operai aspettano risposte. Vere. E non selfie con le felpe, dirette Facebook autoreferenziali o comunicati stampa che sembrano generati da un algoritmo del “nulla cosmico”. Taranto ha bisogno di coraggio, non di acrobati da palazzo o mimi istituzionali.

La questione ILVA è troppo grande per le spalle piccole di chi si limita a sopravvivere nel teatrino locale. E chi non sa decidere da che parte stare, faccia un passo indietro. O almeno taccia.

Perché qui non si gioca con le emozioni dei telespettatori, ma con la salute, il futuro e la vita reale di una comunità intera.

Intanto la comunità continua ad osservare, a documentarsi e – se serve – a sputare l’ironia amara di chi, stanco di sentirsi spettatore, vorrebbe finalmente salire sul palco a riscrivere il copione.

🎭 P.S. Se qualcuno cerca i veri protagonisti, li trova a studiare e documentarsi, li trova in piazza a protestare, per mettere in salvo i figli di domani. Altro che falò. Qui si accendono speranze.

sabato 2 agosto 2025

📝 Diario di bordo n° 20 – agosto 2025

📝 Diario di bordo n° 20 – agosto 2025
🗣 Il diritto di respirare.

Ci sono numeri che fanno più rumore del silenzio.
Numeri che non hanno bisogno di essere urlati, perché gridano da soli.
Undicimilacinquecentocinquanta.
È il numero dei morti stimati in sette anni per cause legate all’inquinamento industriale a Taranto. Tumori ai polmoni, malattie cardiovascolari, patologie ematologiche. Undicimila vite spente lentamente, senza processi, senza sentenze. Solo diagnosi. E funerali.

Questi non sono dati “emozionali”. Sono numeri usciti dalle aule di giustizia e dagli studi dell’ASL e della Regione Puglia. Numeri certificati da scienza e coscienza. Numeri che parlano anche di noi, di Statte, dei nostri quartieri, delle nostre famiglie.

Sì, perché anche noi di Statte siamo dentro quella mappa del dolore. Anche noi siamo parte di quel territorio ferito, contaminato, disilluso. I dati dello studio epidemiologico lo dicono chiaro: l’esposizione agli inquinanti industriali aumenta sensibilmente il rischio di tumori, infarti e morte precoce. E tra Taranto, Massafra e Statte, non c’è molta differenza: cambia il nome sulla carta d’identità, non la quantità di veleni che respiriamo.

A Statte viviamo da anni accanto a un mostro che non abbiamo voluto, ma che ci siamo ritrovati addosso. Ci hanno dato promesse, compensazioni, illusioni. E nel frattempo i nostri polmoni, i nostri cuori, i nostri linfonodi accumulavano diossina, polveri, metalli pesanti. Non per scelta, ma per prossimità.

Quante volte abbiamo sentito dire: “non ci sono prove certe”, “non si può attribuire un singolo tumore a una ciminiera”… ma adesso c’è scritto nero su bianco che vivere vicino all’industria ti accorcia la vita.
E noi che viviamo a Statte lo sappiamo già. Lo abbiamo visto sulle facce delle persone, nei corridoi d’ospedale, nei lutti troppo frequenti e nelle diagnosi che arrivano come fulmini su cieli già carichi.

Oggi più che mai sento il bisogno di dire che non si può più far finta di niente.
Statte non è solo il “vicino di casa” dell’Ilva. Statte è parte della storia industriale e ambientale di questa terra, ne è vittima e – se lo vuole – può diventare anche protagonista della rinascita.

Ma bisogna volerlo, e non solo con i proclami.
Bisogna smetterla con la rassegnazione, con il fatalismo, con la paura di disturbare.
Bisogna pretendere dati pubblici, bonifiche reali, progetti sanitari concreti.
E bisogna anche continuare a prendersi cura del proprio territorio, con gesti semplici ma profondi. Come piantare un albero. Come togliere un vetro da terra. Come raccontare una verità.

Perché ogni albero che piantiamo è un atto di resistenza. Ogni parola detta è un seme di coscienza.
E perché alla fine, quello che si stà chiedendo non è niente di straordinario: vogliamo solo il diritto di respirare senza ammalarci.

E quando vedo le mani sporche di terra dei bambini che piantano un alberello, penso che forse c’è ancora speranza: quella pianta crescerà insieme a loro, e con lei potrebbe nascere un futuro diverso, più giusto, più verde, più umano.

🗞 Cronache da un futuro passato – N°8, Ottobre 2025

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