giovedì 7 agosto 2025

📝 Diario di bordo n°22 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°22 – Agosto 2025
"La rabbia e la flebo. Tra veleno e dignità."

Si continua, imperterriti, in questa torrida estate del 2025.
Un’estate che ha deciso di farmi compagnia con l'ospite indesiderato.
Uno arrogante, presuntuoso, che si è installato dentro di me come certi parassiti in politica: non invitato, ma pretenzioso.
Ha fatto il suo ingresso in silenzio, ha preso posto senza bussare, e ora pensa di dettare legge.
Ma ha sbagliato indirizzo.
Questa è casa mia. E qui dentro non si comanda senza resistenza.

Le giornate non si contano più in ore. Si misurano in flebo, in parole sospese tra un “vediamo” e un “speriamo”.
Ma io ho deciso: non sarò un paziente paziente.
Ferragosto lo festeggerò così: con la dignità che non si piega, con la schiena dritta, con lo sguardo puntato oltre la malattia.
Non ci sarà carne alla brace, ma carne viva che lotta.
Perché la speranza non è una poesia sdolcinata, è una marcia armata di tenacia.

Nel frattempo, mi viene da pensare.
E quando penso, spesso mi arrabbio.
Perché mi torna in mente quella stagione in cui la parola "rappresentanza" era sacra, non il gioco di ruolo dei dilettanti di oggi.
C’è stato un tempo, nei giorni bui e piovosi degli anni di piombo, in cui chi rappresentava i lavoratori scelse da che parte stare.
E non fu facile.
Si oppose, isolò i violenti, disse parole nette. Non per convenienza, ma per coscienza.
Fu una scelta che costò, che divise, che mise a rischio carriere e consensi.
Ma fu la scelta giusta. Una scelta con "le palle".
Una lezione scolpita nella memoria, per chi oggi ha ancora la decenza di studiare la storia prima di indossare la giacca e parlare da un palco.
Mi chiedo: dov’è oggi quel coraggio?
Dov’è la voce che grida “basta” quando tutto intorno si sussurra per paura di perdere un applauso facile?
Dove sono i custodi del futuro, quelli che sanno rinunciare a un tornaconto per difendere una verità?

Taranto non è solo una città.
È una ferita aperta nel corpo dell’Italia.
È una madre che partorisce figli già condannati, è un operaio che sa che il suo pane ha il sapore del veleno.
È un grido strozzato da troppe firme, troppi decreti, troppi silenzi.

Eppure Taranto è anche una culla di dignità.
Una terra che ha già dimostrato cosa significa rialzarsi.
Che conosce il sudore, la lotta, la pazienza e la rabbia.
È fatta di gente vera, che non ha bisogno di leader, ma di guida.
Di chi ha il coraggio di dire:
“Andiamo oltre.
Basta con l’industria della morte.
Rifacciamo la città con le mani pulite.
Salviamo i lavoratori e non solo i posti di lavoro.
Costruiamo progetti con la parola ‘vita’ scritta sopra.”

Per farlo serve unità. Serve lucidità. Serve scegliere.
Serve anche lasciar andare chi rema contro, chi si attacca al potere come la cozza allo scoglio e pensa che rappresentare qualcuno significhi coltivare clientele.
Apriamo gli occhi. Ma soprattutto: riaccendiamo il cervello.
Perché l’onestà non è una dote ereditaria.
È una scelta quotidiana.
E chi non ha il coraggio di farla, non solo tradisce, ma si spegne come una candela in una stanza piena di vento.

Taranto, figlia del ferro e dell’orgoglio,
non piegarti ai profeti della rassegnazione.
Alzati, città dalle mille battaglie,
e torna a cantare con voce piena,
non più il lamento,
ma l’inno di chi ha scelto la vita.
Perché non c’è tumore che tenga,
quando un popolo si sveglia e decide di guarire.

... e mentre la lotta va avanti, tra flebo e parole sospese, il ministro Urso ci regala l’ultima perla.  
Quella che, in un paese serio, sarebbe già virale con l’hashtag #dimissioni, ma qui da noi finisce in archivio tra le «curiosità» della rete.  

L’illustrissimo ministro – che con l’ILVA di Taranto c’entra come i cavoli a merenda – ha comunque voluto lasciare il segno.  
Parlava di industria, di produzione, di rilancio. Poi, con la sicurezza di chi confonde una catena di montaggio con un campo di grano, ha sparato:  
"Attualmente il nostro Paese ospita una delle fattorie ..."

Fattorie. 🫣
Non factories, no. Fattorie.
Come se la Fiat di Mirafiori fosse un agriturismo, e la Whirlpool di Napoli una stalla con annessa produzione di mozzarelle.  
Come se gli operai, invece di scioperare per i diritti, dovessero protestare per la mancata distribuzione di secchi per la mungitura.  

Ecco, Ministro, questa è la metafora involontaria della sua classe:  
Un’Italia che da potenza industriale si trasforma in un presepe a cielo aperto.
Dove i ministri giocano a fare i contadini, i lavoratori diventano comparse,  
e le uniche cose che crescono davvero sono le risate amare e i tumori.  

Ma sa una cosa? Noi qui ridiamo ancora.  
Perché se la politica è diventata una factory di buffonate,  allora è meglio essere fattori della propria dignità.  
E quando verrà il momento del raccolto,  
state certi che la zappa la impugneremo noi.  
Per dissodare non la terra, ma la vergogna.  

#FattorieUrso – L’Italia che coltivi (male) e raccogli (peggio).👇

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