"Il gelo delle parole e il fuoco della coscienza."
Resterà impressa la voce della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, quando con poche frasi di ghiaccio ha liquidato le sofferenze del popolo palestinese. Parole che hanno avuto il peso di una sentenza: “Non sono la priorità della Flotilla”. In quell’istante, la missione stessa è stata svuotata del suo significato: aiutare chi vive sotto assedio e ricordare al mondo che la dignità non ha confini.
C’è chi ha rabbrividito pensando a cosa avrebbe potuto dire, con toni ancora più corrosivi, il Presidente del Senato La Russa. Forse parole più ruvide, più sprezzanti, più lontane dall’umanità. Ma la sostanza non cambia: lo Stato, nelle sue voci più alte, ha scelto di parlare come se rappresentasse solo una minoranza, e non l’intero popolo italiano.
È questo il punto che scava più a fondo: le istituzioni non sono un palco di partito. Quando riduci la sofferenza di un popolo a un dettaglio secondario, stai tradendo il compito più sacro: rappresentare tutti, dare voce a chi non ne ha, incarnare la coscienza collettiva.
Il disgusto nasce qui: dall’arroganza di chi parla come se ci fossero solo “i suoi”, dimenticando milioni di cittadini che ancora credono nella solidarietà, nella dignità, nella pace. È la frattura tra il linguaggio del potere e il respiro di un popolo che non vuole smettere di guardare oltre.
Ma in queste cronache di un futuro che sembra già scritto, resta uno spiraglio: non tutto è perduto se impariamo a pretendere istituzioni che tornino ad essere la casa di tutti. Non un megafono dell’indifferenza, ma una bussola che indichi un’altra rotta: quella della pace, della responsabilità, della giustizia.
Il futuro non si scrive con parole di gelo. Si costruisce con scelte che scaldano la coscienza.
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