“Sala operatoria e sala dei bottoni”
Manca poco, dicono.
Manca poco e dovrò tornare in sala operatoria.
Solo a scriverlo mi si alza il battito, come se il cuore avesse deciso di fare un po’ di corsa al posto mio.
Non vi nascondo di essere infastidito, anzi, nervoso come un gatto chiuso in macchina d’estate.
Rientrare in quella stanza bianca, fredda e perfettamente illuminata, dove il tempo sembra sospeso, mi mette addosso una tensione che non riesco a mascherare. E la cosa peggiore, lo ammetto, è l’attesa.
Non so ancora il giorno preciso, mi hanno detto che “mi chiameranno loro”.
Sì, certo. Come se avessi il tempo e la serenità per vivere in sospeso, aspettando una telefonata che deciderà quando potranno di nuovo violare il mio corpo.
Ieri, durante il day hospital, ho insistito, chiesto, quasi implorato di sapere quando.
Niente. Silenzio. Occhiate vaghe. “Sarà a breve, signor Pugliese.”
Che poi, a breve quanto? Un giorno? Una settimana?
Ormai, con l’esperienza accumulata, credo di aver capito i tempi: la prossima settimana sarà quella decisiva.
E intanto, ogni notte è una piccola veglia d’armi, fatta di pensieri, incubi e ansie che ballano nella testa.
Ma mentre attendo la mia chiamata in clinica, il Paese attende la sua chiamata alle urne.
Già, perché il clima politico, se mai fosse stato sereno, si è di nuovo infiammato.
Campagna elettorale per le regionali.
Un’altra abbuffata di promesse, slogan, comizi e facce sorridenti che garantiscono mari e monti, come se gli italiani non avessero più memoria.
La solita rissa da talk show, la solita propaganda da fiera di paese.
E intanto, tra una dichiarazione roboante e un selfie elettorale, la realtà rimane lì, nuda e cruda: il ceto medio si è quasi estinto, quello povero non arriva più nemmeno a metà mese e chi si ammala deve scegliere se curarsi o mangiare.
Lo chiamano “Stato sociale”, ma ormai sembra più un gioco di parole: lo Stato non c’è e la società si arrangia.
Io, nel mio piccolo, lo vedo negli sguardi di chi incontro in ospedale.
Persone stanche, spaventate, con la dignità piegata ma non spezzata.
Gente che non chiede miracoli, ma solo giustizia.
Non la giustizia dei tribunali, ma quella umana, sociale, concreta.
Quella che passa per un ticket sanitario accessibile, una lista d’attesa più breve, una politica che invece di fare campagna elettorale in TV, faccia qualcosa per chi, come me e tanti altri, combattono ogni giorno la propria battaglia dentro e fuori un luogo di cura.
Forse, in fondo, l’Italia ha bisogno di meno propaganda e più empatia.
Di meno talk show e più ascolto.
Di meno passerelle e più umanità.
Perché la vera malattia del nostro tempo non è solo quella che si cura con la chemio, ma quella che si diffonde con l’indifferenza.
Ecco perché, mentre aspetto quella telefonata che mi rimetterà in sala operatoria, continuo a sperare che, prima o poi, arrivi anche quella che ci rimetta tutti in sala dei bottoni, ma con mani pulite, coscienza viva e cuore umano.