"La diossina, le pecore e le “favole” di Taranto."
Certe volte, nei tribunali italiani, sembra di assistere più a un’opera buffa che a un processo. Succede così anche a Potenza, dove si discute il destino giudiziario di 22 imputati per il disastro ambientale targato ex Ilva. L’avvocato difensore di uno dei fiduciari dei Riva, ha sostenuto con piglio sicuro che la diossina e i PCB trovati nelle pecore di Fornaro non hanno nulla a che fare con le emissioni dello stabilimento siderurgico tarantino.
Una tesi ardita, quasi poetica: gli inquinanti, secondo questa narrazione, arriverebbero da chissà dove, forse dalle stelle cadenti o – perché no – dalle “puzzette” delle stesse pecore abbattute. Perché se si segue questo ragionamento, il vero pericolo per Taranto non sarebbero i camini dell’acciaieria, ma il ruminare sospetto degli ovini.
L’arringa, durata quattro ore, ha cercato di smontare il lavoro dei periti della magistratura, accusati di errori metodologici e conclusioni affrettate. Eppure, a guardare la storia di Taranto e delle sue cicatrici, quelle affermazioni suonano come un insulto alla memoria di chi ha pagato con la vita l’aria avvelenata e il suolo contaminato.
Perché la realtà, per quanto si tenti di mascherarla, resta sotto gli occhi di tutti: quartieri devastati da malattie, un ecosistema compromesso, famiglie intere travolte da lutti che hanno sempre e solo un denominatore comune. Non si tratta di suggestioni, ma di dati, rapporti sanitari, mappe epidemiologiche.
Che poi il procedimento sia stato spostato da Taranto a Potenza poco importa: il vento che spinge le nuvole di fumo nero resta lo stesso, e la storia non si riscrive con un’arringa.
Alla fine, resta una domanda amara: fino a che punto siamo disposti a credere a certe favole da aula di tribunale? E soprattutto: chi ci guadagna a trasformare le vittime in colpevoli e gli inquinatori in agnelli sacrificali?
Perché una cosa è certa: le pecore di Fornaro non avevano ciminiere.
🖋GP
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