giovedì 14 agosto 2025

Un ponte tra generazioni: perché l'Italia ha bisogno urgente di case condivise intergenerazionali.

👥️ Un ponte tra generazioni: perché l'Italia ha bisogno urgente di case condivise intergenerazionali.

I numeri parlano chiaro, e gridano un doppio disagio sociale: oltre il 40% degli over 65 italiani vive in solitudine, mentre migliaia di studenti lottano ogni giorno per trovare un alloggio dignitoso a costi accessibili. Sono due fragilità che si specchiano l'una nell'altra, due emergenze – quella della solitudine senile e quella della crisi abitativa giovanile – che paralizzano il presente e ipotecano il futuro del Paese. Eppure, esiste un'idea concreta, umana e già sperimentata con successo altrove, che potrebbe trasformare questo problema in una risorsa: le abitazioni intergenerazionali.

L'immagine è semplice, potente e rivoluzionaria: un anziano con una stanza vuota in casa e il desiderio (o bisogno) di compagnia; uno studente in cerca di un tetto e disposto a offrire presenza, ascolto e un aiuto nelle piccole cose quotidiane. Non si tratta di assistenza unidirezionale, né di beneficenza. 
È reciprocità pura. È convivenza responsabile basata sullo scambio: sicurezza abitativa contro compagnia, esperienza contro energia fresca, radici contro prospettive.

Perché allora, in Italia, questa soluzione fatica a decollare su larga scala, restando confinata a pochi lodevoli progetti pilota? 
Le ragioni sono complesse, ma non insormontabili:

1.  Resistenza culturale: Siamo un Paese con una forte tradizione familiare "chiusa". L'idea di aprire la propria casa a uno sconosciuto, per quanto bisognoso, può suscitare diffidenza. Occorre un cambio di mentalità, passando dalla paura dell'"estraneo" alla cultura dell'accoglienza reciproca e della comunità.

2.  Mancanza di un quadro normativo semplice e sicuro: Come regolamentare questi accordi? Come tutelare entrambe le parti (diritti/doveri, aspetti contrattuali, sicurezza, risoluzione conflitti)? 
La mancanza di un percorso chiaro e snello frena molti potenziali partecipanti e istituzioni.

3.  Assenza di una rete di supporto solida: 
I progetti di successo all'estero (Germania, Olanda, Spagna, Francia) funzionano grazie a enti no-profit, comuni o cooperative che fanno da "facilitatori": abbinano le persone, offrono mediazione, supporto logistico e talvolta un piccolo contributo. In Italia, queste strutture sono ancora poche e frammentate.

4.  Sottovalutazione politica e mediatica: Nonostante l'evidenza del doppio problema, il tema raramente trova spazio nei dibattiti pubblici e nell'agenda politica con la forza che meriterebbe. Si preferisce spesso il "rimpallo delle responsabilità" alla ricerca di soluzioni innovative e a basso costo.

Eppure, i vantaggi sono innegabili e molteplici:

▪️Combattere la solitudine: Offre agli anziani compagnia quotidiana, stimoli mentali, un senso di utilità e maggiore sicurezza in casa.
▪️Ridurre la crisi abitativa: Fornisce agli studenti una sistemazione a costi molto contenuti (spesso simbolici) in cambio di tempo e piccoli aiuti.
▪️Creare reti sociali: Rompe l'isolamento, crea legami inaspettati e rafforza il tessuto comunitario del quartiere.
▪️Scambio culturale e umano: Giovani e anziani si arricchiscono vicendevolmente, condividendo esperienze, storie, competenze e punti di vista sul mondo.
▪️Alleggerire il welfare: È una soluzione dal basso, a costo quasi zero per lo Stato, che può alleviare la pressione sui servizi sociali dedicati alla solitudine senile.

▫️Cosa serve per far decollare questo modello in Italia? Proposte concrete:

1.  Legge quadro regionale/nazionale: Definire un quadro normativo semplice che riconosca e regolamenti i contratti di convivenza intergenerazionale, tutelando diritti e doveri di entrambe le parti (durata, contributi, recesso, assicurazioni).

2.  Sostegno ai facilitatori: Finanziare (anche con fondi europei) e potenziare il ruolo di enti no-profit, cooperative sociali o servizi comunali dedicati a:
    ▪️Abbinare anziani e studenti con criteri chiari (interessi, esigenze, compatibilità).
    ▪️Offrire mediazione: Supporto nella stesura di accordi chiari e nella risoluzione di eventuali conflitti.
    ▪️Fornire supporto: Controlli periodici, linee guida, formazione base per entrambe le parti.

3.  Incentivi fiscali mirati: Agevolazioni (es. detrazioni) per gli anziani che mettono a disposizione una stanza in regime di convivenza intergenerazionale regolamentata.

4.  Campagne di sensibilizzazione: Informare cittadini, amministratori locali e operatori sociali sui benefici e sul funzionamento del modello, sfatando pregiudizi e paure.

5.  Mappatura e replicabilità: Identificare, sostenere e far conoscere i progetti pilota già esistenti in Italia (Torino, Milano, Bologna, ecc.) per diffondere best practices e lezioni apprese.

Rimettere insieme giovani e anziani sotto lo stesso tetto non è un'utopia romantica, ma una strategia sociale pragmatica e profondamente umana. 
È un modo per trasformare due vulnerabilità in un'opportunità concreta di benessere individuale e collettivo. È un investimento sul capitale sociale più prezioso: le relazioni autentiche. Di fronte a dati così allarmanti di solitudine e disagio abitativo, continuare a ignorare questa soluzione o relegarla a esperimento marginale non è solo miopia: è un fallimento della politica e della società nel prendersi cura dei propri cittadini. È ora di passare dai dibattiti sterili ai fatti, costruendo ponti concreti tra generazioni, una stanza alla volta. Il futuro delle nostre città e il senso stesso dell'abitare ne hanno urgente bisogno.

martedì 12 agosto 2025

📝 Diario di bordo n°26 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°26 – Agosto 2025
"Gli zerbini dei potenti e l’aria che scotta"

Il sole di agosto non perdona. Ma nemmeno io.
Oggi non possiamo restare accomodanti con i “potenti” e compiacenti verso i politicanti impettiti come se avessero la chiave del destino di Taranto. 
Questa mattina Taranto vive un tempo sospeso, come se qualcuno avesse premuto il tasto “pausa” sulla dignità di un’intera comunità. 
Ci parlano di “sviluppo” e “progresso”, ma ci chiedono in cambio di respirare ancora per anni l’aria di un passato che ci ha già presentato un conto altissimo in termini di salute e futuro.
Il futuro pensano di deciderlo altrove, in stanze dove il sudore non è quello del lavoro e il dolore quello della malattia, ma semplicemente è quello delle poltrone di pelle.

Sveglia alle 8. Alle 10 mi aspetta un altro round di chemio.
Protezione gastrica, caffè e, per non sfidare troppo lo stomaco, due grissini torinesi buttati giù con mezzo litro d’acqua. La notte? Inutile parlarne. I pensieri hanno corso una maratona e io ero l’unico spettatore obbligato.

Arrivo in clinica. L’aria è già calda, ma non sarà certo il termometro a fermarmi.
Sabrina, l’infermiera, mi indirizza nella solita stanza. Due letti. Stavolta, però, il mio compagno di viaggio non c’è. Tocca a me, da solo, passare quelle due ore di siero e silenzi.

Accendo il telefono e mi sintonizzo sulla diretta Facebook: conferenza di Giustizia per Taranto e PeaceLink.
Sandro Marescotti, con la sua calma feroce, snocciola verità come proiettili. Non sbaglia un colpo. Lo conosco da una vita e so che di lui ci si può fidare senza riserve. Sta lottando come un leone. Anche per me.
Gli occhi mi si riempiono. Non di debolezza, ma di riconoscenza.

Tre ore dopo, ho terminato la chemio. 
Mi alzo. Barcollo. Questo giro mi ha preso a schiaffi.
Mio figlio mi afferra per un braccio, scendiamo le scale. Fuori, la città è una fornace.
Si torna a casa.

In macchina penso a chi lotta. C’è chi lo fa in piazza, chi da un letto d’ospedale, chi in fabbrica, cercando di difendere il suo posto di lavoro, pur sapendo che quel “mostro” lo sta avvelenando. Ma lotta lo stesso.
A Taranto, la lotta non è una scelta. È un riflesso, come respirare.
E fino a quando ci sarà anche un solo tarantino disposto a resistere, il “mostro” non dormirà mai sonni tranquilli.

lunedì 11 agosto 2025

📝 Diario di bordo n° 25 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n° 25 – Agosto 2025
"Quando il destino decide di divertirsi a tue spese"

Un’estate indimenticabile, dicevano.
Caldo, mare, granite e qualche serata con il vento buono… 
Tutto potevo immaginare, tranne quello che mi è piovuto tra capo e collo.
Ma noi tarantini certe “sorprese” dobbiamo metterle in preventivo: se piove, non è acqua, è polvere rossa; se tira vento, non è aria, è un bouquet chimico gentilmente offerto dall’industria pesante. E se finalmente splende il sole, e pensi di respirare… stai solo annusando la prossima batosta.

Ma quest’anno, oltre alle “specialità” locali, ci si è messo pure il caro vacanze.
Gli stabilimenti balneari hanno trasformato l’ombrellone in un lusso da collezionisti, il gelato è diventato un investimento a medio termine e un panino sul lungomare ti fa chiedere se non sia ripieno di lingotti.
Il potere d’acquisto delle famiglie? Un ricordo sbiadito. Ormai è più facile trovare una conchiglia intatta a San Vito che una famiglia che possa permettersi una settimana di ferie senza andare in rosso in banca.

E così ti ritrovi a fare vacanze “alternative”: giardino di casa, sedia di plastica, ventilatore anni ’90 e vista mozzafiato… sul giardino del vicino. 
Oppure il grande classico tarantino: uscita serale “a prendere il fresco” che dura venti minuti, giusto il tempo di sentire la puzza e tornare indietro bestemmiando tra sé e sé.

Perché la verità è questa: l’estate, qui, non te la godi… la sopravvivi.
Tra le batoste economiche e quelle ambientali, ti arrivano addosso come una raffica di schiaffi a cielo aperto. E tu, che potresti anche incazzarti, alla fine alzi il sopracciglio e vai avanti.

Ma poi arriva sera. Il sole scende piano sulla città e il cielo si accende di arancio, rosso e oro.
E in quell’istante, Taranto ti strega di nuovo. Ti ricorda che, nonostante tutto, lei è capace di regalarti tramonti che non trovi in nessuna brochure, emozioni che non hanno prezzo e un amore che nessuna crisi, nessuna fabbrica e nessuna batosta riuscirà mai a spegnere.

E mentre resti lì, con gli occhi pieni di bellezza, qualcuno da Roma pensa bene di chiedere ai tarantini un altro sacrificio, un’altra “pazienza”, un’altra ferita per il caso ILVA.
Bene, cari signori: di sacrifici qui ne abbiamo fatti abbastanza. Non vi azzardate a chiedercene ancora. Il pugno sul tavolo lo sbattiamo noi, questa volta.

sabato 9 agosto 2025

📝 Diario di bordo n°24 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°24 – Agosto 2025
“Vacanze (im)possibili, Taranto imprigionata e promesse evaporate”

Siamo arrivati al limite, e non è il limite geografico di Lampedusa o di Capo Nord: è il limite della pazienza.
Fare le vacanze, oggi, per una famiglia media è diventato come vincere alla lotteria: un sogno, ma senza il biglietto vincente. Spiagge dorate? Sì, ma solo quelle nei cataloghi patinati delle agenzie. Alberghi? Con le tariffe che girano, ti conviene farti adottare da un resort.

E mentre gli italiani contano le monete per un gelato, c’è ancora chi difende questo governo con l’entusiasmo di un tifoso da curva sud… peccato che la squadra giochi sempre in difesa, e per di più nella porta sbagliata.

Ah, e poi la chicca dell’estate: i dazi di Trump. Un’altra mazzata, tanto per assicurarsi che quel poco di potere d’acquisto che ci restava finisca sotto la sabbia, insieme ai castelli dei bambini.

Nel frattempo, Taranto resta lì, incatenata alle sue ciminiere come un ergastolano al palo.
Le vacanze per noi tarantini hanno sempre un retrogusto amaro: puoi anche andare al mare, ma sai che a due passi c’è chi continua a sfornare polveri e veleni, con la complicità di chi governa e la distrazione di chi dovrebbe vigilare.
Si parla di turismo e di rilancio, ma nessuno mette in conto che respirare aria pulita è il primo biglietto per una vacanza vera.

E mentre riflettevo su tutto questo, ecco la notizia bomba: l’ASL di Taranto mi ha convocato per una visita presso la sua commissione.
Mi immagino la scena: loro che mi scrutano, io che respiro come un mantice e penso “Volete sapere come sto? Uscite un’ora all’aria aperta qui e poi ci raccontiamo chi ha bisogno della visita”.
In fondo, a Taranto, l’unica commissione che dovrebbero convocare è quella per valutare la salute dell’aria… ma per quella servirebbe una cartella clinica troppo spessa per passare dalla porta.

In qualche cassetto del ministero, intanto, c’è ancora l’ologramma della promessa più famosa d’Italia: il taglio delle accise. Promessa vista più volte di Babbo Natale, e con la stessa probabilità di vederla realizzata. Gli italiani aspettano… e aspettano… mentre il governo si esercita nello sport nazionale preferito: dare la colpa agli altri.

📊 Rendicontazione per memoria storica:

▪️Taglio accise: non pervenuto.
▪️Sostegno alle famiglie: irreperibile.
▪️Riduzione costi vacanze: Santanchè e i diari di  fantascienza.
▪️Risanamento Taranto: archiviato con polvere.
▪️Visita ASL: in arrivo, portate i pop-corn.
▪️Colpe altrui: illimitate e sempre disponibili.

Cari italiani – e cari tarantini – preparatevi: tra un po’ ci venderanno l’aumento dei prezzi come “esperienza premium”, l’inquinamento come “patrimonio industriale” e la mancanza di ferie come “vacanza a chilometro zero”. E noi, se non apriamo gli occhi, resteremo turisti del nostro stesso portafoglio vuoto… e prigionieri della nostra stessa aria, in attesa di una visita… che non guarisce nessuno.

📝 Diario di bordo n°23 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°23 – Agosto 2025
"La discarica dei fantasmi (ma i fantasmi hanno la partita IVA)"

Oggi, mentre molti si godono la granita dell’estate, è arrivata la notizia che a Statte – proprio qui – è stato confermato il sequestro di 700 mila metri quadri di terreno dell’ex Ilva.
Un tappeto velenoso di 5 milioni di tonnellate di rifiuti industriali. Fanghi, polveri, scarti tossici accatastati per anni come se il nostro territorio fosse una pattumiera senza fondo.

Non è roba nuova: il sequestro è del 2018. Solo che oggi ce lo ricordano, come a dire: “Ah, già, esiste anche questa bomba ecologica…”. E così, tra un selfie e un mojito, passa tutto in sordina.

Io, invece, non ci passo sopra.
Perché qui non si tratta di fatalità, ma di scelte. Qualcuno ha deciso di buttare lì quella roba. Qualcuno ha chiuso gli occhi. Qualcuno ha intascato.
E siccome in Italia la colpa è sempre di “tutti” e quindi di “nessuno”, i veri responsabili continuano a farsi vedere ai convegni sull’ambiente, con la cravatta e la faccia di bronzo.

In mezzo ci siamo noi, cittadini di due Comuni – Taranto e Statte – legati da un destino comune, eppure ancora divisi da interessi, paure, convenienze.
C’è chi finge di non sapere, chi sa ma tace, e chi urla nel vuoto.

La verità è che questa discarica non è un incidente del passato, ma un marchio indelebile sul presente.

E allora lo scrivo qui, nero su bianco: la memoria non è un vezzo, è un dovere.
Perché queste montagne di rifiuti non sono cadute dal cielo. Qualcuno le ha fatte crescere. Qualcuno ha chiuso gli occhi. Qualcuno ha incassato.

Il guaio è che quel "qualcuno" ha sempre un nome e un cognome. Ma finché restano coperti dal comodo plurale di un “si è fatto” o “si è lasciato fare”, l’unico responsabile sarà sempre e solo un fantasma.

E i fantasmi, lo sappiamo, non finiscono mai sotto processo.

giovedì 7 agosto 2025

📝 Diario di bordo n°22 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n°22 – Agosto 2025
"La rabbia e la flebo. Tra veleno e dignità."

Si continua, imperterriti, in questa torrida estate del 2025.
Un’estate che ha deciso di farmi compagnia con l'ospite indesiderato.
Uno arrogante, presuntuoso, che si è installato dentro di me come certi parassiti in politica: non invitato, ma pretenzioso.
Ha fatto il suo ingresso in silenzio, ha preso posto senza bussare, e ora pensa di dettare legge.
Ma ha sbagliato indirizzo.
Questa è casa mia. E qui dentro non si comanda senza resistenza.

Le giornate non si contano più in ore. Si misurano in flebo, in parole sospese tra un “vediamo” e un “speriamo”.
Ma io ho deciso: non sarò un paziente paziente.
Ferragosto lo festeggerò così: con la dignità che non si piega, con la schiena dritta, con lo sguardo puntato oltre la malattia.
Non ci sarà carne alla brace, ma carne viva che lotta.
Perché la speranza non è una poesia sdolcinata, è una marcia armata di tenacia.

Nel frattempo, mi viene da pensare.
E quando penso, spesso mi arrabbio.
Perché mi torna in mente quella stagione in cui la parola "rappresentanza" era sacra, non il gioco di ruolo dei dilettanti di oggi.
C’è stato un tempo, nei giorni bui e piovosi degli anni di piombo, in cui chi rappresentava i lavoratori scelse da che parte stare.
E non fu facile.
Si oppose, isolò i violenti, disse parole nette. Non per convenienza, ma per coscienza.
Fu una scelta che costò, che divise, che mise a rischio carriere e consensi.
Ma fu la scelta giusta. Una scelta con "le palle".
Una lezione scolpita nella memoria, per chi oggi ha ancora la decenza di studiare la storia prima di indossare la giacca e parlare da un palco.
Mi chiedo: dov’è oggi quel coraggio?
Dov’è la voce che grida “basta” quando tutto intorno si sussurra per paura di perdere un applauso facile?
Dove sono i custodi del futuro, quelli che sanno rinunciare a un tornaconto per difendere una verità?

Taranto non è solo una città.
È una ferita aperta nel corpo dell’Italia.
È una madre che partorisce figli già condannati, è un operaio che sa che il suo pane ha il sapore del veleno.
È un grido strozzato da troppe firme, troppi decreti, troppi silenzi.

Eppure Taranto è anche una culla di dignità.
Una terra che ha già dimostrato cosa significa rialzarsi.
Che conosce il sudore, la lotta, la pazienza e la rabbia.
È fatta di gente vera, che non ha bisogno di leader, ma di guida.
Di chi ha il coraggio di dire:
“Andiamo oltre.
Basta con l’industria della morte.
Rifacciamo la città con le mani pulite.
Salviamo i lavoratori e non solo i posti di lavoro.
Costruiamo progetti con la parola ‘vita’ scritta sopra.”

Per farlo serve unità. Serve lucidità. Serve scegliere.
Serve anche lasciar andare chi rema contro, chi si attacca al potere come la cozza allo scoglio e pensa che rappresentare qualcuno significhi coltivare clientele.
Apriamo gli occhi. Ma soprattutto: riaccendiamo il cervello.
Perché l’onestà non è una dote ereditaria.
È una scelta quotidiana.
E chi non ha il coraggio di farla, non solo tradisce, ma si spegne come una candela in una stanza piena di vento.

Taranto, figlia del ferro e dell’orgoglio,
non piegarti ai profeti della rassegnazione.
Alzati, città dalle mille battaglie,
e torna a cantare con voce piena,
non più il lamento,
ma l’inno di chi ha scelto la vita.
Perché non c’è tumore che tenga,
quando un popolo si sveglia e decide di guarire.

... e mentre la lotta va avanti, tra flebo e parole sospese, il ministro Urso ci regala l’ultima perla.  
Quella che, in un paese serio, sarebbe già virale con l’hashtag #dimissioni, ma qui da noi finisce in archivio tra le «curiosità» della rete.  

L’illustrissimo ministro – che con l’ILVA di Taranto c’entra come i cavoli a merenda – ha comunque voluto lasciare il segno.  
Parlava di industria, di produzione, di rilancio. Poi, con la sicurezza di chi confonde una catena di montaggio con un campo di grano, ha sparato:  
"Attualmente il nostro Paese ospita una delle fattorie ..."

Fattorie. 🫣
Non factories, no. Fattorie.
Come se la Fiat di Mirafiori fosse un agriturismo, e la Whirlpool di Napoli una stalla con annessa produzione di mozzarelle.  
Come se gli operai, invece di scioperare per i diritti, dovessero protestare per la mancata distribuzione di secchi per la mungitura.  

Ecco, Ministro, questa è la metafora involontaria della sua classe:  
Un’Italia che da potenza industriale si trasforma in un presepe a cielo aperto.
Dove i ministri giocano a fare i contadini, i lavoratori diventano comparse,  
e le uniche cose che crescono davvero sono le risate amare e i tumori.  

Ma sa una cosa? Noi qui ridiamo ancora.  
Perché se la politica è diventata una factory di buffonate,  allora è meglio essere fattori della propria dignità.  
E quando verrà il momento del raccolto,  
state certi che la zappa la impugneremo noi.  
Per dissodare non la terra, ma la vergogna.  

#FattorieUrso – L’Italia che coltivi (male) e raccogli (peggio).👇

domenica 3 agosto 2025

Taranto, la città dello scontro eterno.

Taranto, la città dello scontro eterno.

A Taranto si continua a respirare – e non è solo un modo di dire – il solito scontro tra ambientalisti sì e ambientalisti no, pro-ILVA e anti-ILVA, salute o lavoro. Una partita a scacchi dove le pedine, purtroppo, si ammalano, e i re e le regine sono sempre fuori scacchiera, lontani da fumi e sirene.

Da quel fatidico 2012, con il sequestro degli impianti da parte della magistratura, la questione è deflagrata come un altoforno impazzito: da allora è tutto un crescendo – ma non di bellezza, bensì di contrapposizione. Taranto è diventata il palcoscenico di uno scontro ideologico e sociale che si consuma ogni giorno nei bar, nei consigli comunali, nei social, e perfino nei corridoi degli ospedali.

Ci sono quelli che ti dicono: “Ma guarda che non è solo l’ILVA che inquina, eh! Ci sono anche le navi, il porto, la raffineria, il traffico, perfino i barbecue abusivi!”. Certo, è vero. Ma se una persona muore di tumore, gli vogliamo chiedere la fonte esatta di emissione delle PM10 nel suo alveolo polmonare?

E poi ci sono quelli che ti rispondono con l’altra frase cult: “Eh, ma se chiude l’ILVA, dove vanno a lavorare 16.000 persone?” – come se vivere in un forno tossico fosse un bonus sullo stipendio. Come se non esistessero modelli di riconversione, di economia sostenibile, come se il futuro fosse scritto a fuoco su una ciminiera.

Il risultato? Cittadini contro cittadini, amici contro amici, parenti contro parenti. Come se chi si batte per la salute volesse vedere tutti disoccupati e chi difende il lavoro godesse a respirare diossina. No, il problema è che la politica ha abdicato al suo ruolo di mediatore e progettista di futuro, scaricando tutto sulle spalle dei tarantini, costretti a scegliere tra campare o morire lentamente.

In questo teatro tragicomico, ci vorrebbe una narrazione nuova. Una che unisca. Una che dica: “Salute e lavoro non sono incompatibili, ma richiedono visione, coraggio e investimento”. Ma al momento ci accontentiamo di vedere gli ambientalisti dipinti come “radical chic col pollice verde” e gli operai come “fanatici del posto fisso a qualsiasi costo”. Stereotipi che piacciono molto a chi preferisce che nulla cambi.

Intanto Taranto aspetta. Aspetta giustizia, verità, e soprattutto una vera transizione giusta. Non una finta riconversione a suon di convegni e slide PowerPoint.

E intanto... ci sono i polmoni dei bambini che si ammalano con la diossina, mentre giocano nella terra rossa di minerale velenoso di questa terra ferita.
Senza chiedersi da che parte stare. Perché stanno dalla parte della vita.

🖋 GP

📝 Diario di bordo n° 21 – agosto 2025

📝 Diario di bordo n° 21 – agosto 2025
 "Temptation Taranto – falò di finzione"

A Taranto va in scena una tragicommedia che ormai non fa più nemmeno ridere. Il titolo? “Tutti contro tutti – special edition”. La regia è collettiva: ognuno recita il proprio copione, rigorosamente scollegato da quello degli altri, e nessuno, ma proprio nessuno, sembra voler affrontare la vera questione: l’ex ILVA.

C’è da prepararsi a un altro appuntamento cruciale, fissato per il 12 agosto. Una data che dovrebbe scuotere coscienze e smuovere montagne di responsabilità. E invece… niente. Silenzio. Sparsi qua e là, tra social e interviste, molti  dei nostri politicanti locali si esercitano nell’antica arte del dribbling istituzionale. L’unica partita che giocano è quella del non detti, del non visti e del non presenti. Alcuni sono talmente bravi a non nominare l’ILVA che se li cerchi per strada ti passano accanto come se fossero personaggi non giocanti di un videogioco: stanno lì, ma non servono a nulla.

Poi c’è chi, nella penombra del palcoscenico, riappare all’improvviso, giusto il tempo per lanciare invettive da teatrino contro l'avversario del momento, magari su argomenti che oggi, francamente, interessano meno di una zanzara a dicembre. Ma va bene così: ognuno ha il suo piccolo falò, il suo momento di confronto. Anzi, verrebbe da dire: confrontino. Si sbraitano addosso come in una puntata di Temptation Island, ma senza neanche la passione finta. Solo tanto, tantissimo vuoto politico.

Nel frattempo, la città aspetta risposte, gli operai aspettano risposte. Vere. E non selfie con le felpe, dirette Facebook autoreferenziali o comunicati stampa che sembrano generati da un algoritmo del “nulla cosmico”. Taranto ha bisogno di coraggio, non di acrobati da palazzo o mimi istituzionali.

La questione ILVA è troppo grande per le spalle piccole di chi si limita a sopravvivere nel teatrino locale. E chi non sa decidere da che parte stare, faccia un passo indietro. O almeno taccia.

Perché qui non si gioca con le emozioni dei telespettatori, ma con la salute, il futuro e la vita reale di una comunità intera.

Intanto la comunità continua ad osservare, a documentarsi e – se serve – a sputare l’ironia amara di chi, stanco di sentirsi spettatore, vorrebbe finalmente salire sul palco a riscrivere il copione.

🎭 P.S. Se qualcuno cerca i veri protagonisti, li trova a studiare e documentarsi, li trova in piazza a protestare, per mettere in salvo i figli di domani. Altro che falò. Qui si accendono speranze.

sabato 2 agosto 2025

📝 Diario di bordo n° 20 – agosto 2025

📝 Diario di bordo n° 20 – agosto 2025
🗣 Il diritto di respirare.

Ci sono numeri che fanno più rumore del silenzio.
Numeri che non hanno bisogno di essere urlati, perché gridano da soli.
Undicimilacinquecentocinquanta.
È il numero dei morti stimati in sette anni per cause legate all’inquinamento industriale a Taranto. Tumori ai polmoni, malattie cardiovascolari, patologie ematologiche. Undicimila vite spente lentamente, senza processi, senza sentenze. Solo diagnosi. E funerali.

Questi non sono dati “emozionali”. Sono numeri usciti dalle aule di giustizia e dagli studi dell’ASL e della Regione Puglia. Numeri certificati da scienza e coscienza. Numeri che parlano anche di noi, di Statte, dei nostri quartieri, delle nostre famiglie.

Sì, perché anche noi di Statte siamo dentro quella mappa del dolore. Anche noi siamo parte di quel territorio ferito, contaminato, disilluso. I dati dello studio epidemiologico lo dicono chiaro: l’esposizione agli inquinanti industriali aumenta sensibilmente il rischio di tumori, infarti e morte precoce. E tra Taranto, Massafra e Statte, non c’è molta differenza: cambia il nome sulla carta d’identità, non la quantità di veleni che respiriamo.

A Statte viviamo da anni accanto a un mostro che non abbiamo voluto, ma che ci siamo ritrovati addosso. Ci hanno dato promesse, compensazioni, illusioni. E nel frattempo i nostri polmoni, i nostri cuori, i nostri linfonodi accumulavano diossina, polveri, metalli pesanti. Non per scelta, ma per prossimità.

Quante volte abbiamo sentito dire: “non ci sono prove certe”, “non si può attribuire un singolo tumore a una ciminiera”… ma adesso c’è scritto nero su bianco che vivere vicino all’industria ti accorcia la vita.
E noi che viviamo a Statte lo sappiamo già. Lo abbiamo visto sulle facce delle persone, nei corridoi d’ospedale, nei lutti troppo frequenti e nelle diagnosi che arrivano come fulmini su cieli già carichi.

Oggi più che mai sento il bisogno di dire che non si può più far finta di niente.
Statte non è solo il “vicino di casa” dell’Ilva. Statte è parte della storia industriale e ambientale di questa terra, ne è vittima e – se lo vuole – può diventare anche protagonista della rinascita.

Ma bisogna volerlo, e non solo con i proclami.
Bisogna smetterla con la rassegnazione, con il fatalismo, con la paura di disturbare.
Bisogna pretendere dati pubblici, bonifiche reali, progetti sanitari concreti.
E bisogna anche continuare a prendersi cura del proprio territorio, con gesti semplici ma profondi. Come piantare un albero. Come togliere un vetro da terra. Come raccontare una verità.

Perché ogni albero che piantiamo è un atto di resistenza. Ogni parola detta è un seme di coscienza.
E perché alla fine, quello che si stà chiedendo non è niente di straordinario: vogliamo solo il diritto di respirare senza ammalarci.

E quando vedo le mani sporche di terra dei bambini che piantano un alberello, penso che forse c’è ancora speranza: quella pianta crescerà insieme a loro, e con lei potrebbe nascere un futuro diverso, più giusto, più verde, più umano.

📝 Diario di bordo n° 19 – Agosto 2025

📝 Diario di bordo n° 19 – Agosto 2025
"Tranquilli, è tutto sotto controllo. Anche la follia."

Le giornate scorrono, e con loro anche i pensieri che fanno a gara tra chi riesce a urlare di più nella mia testa.
Cerco di vivere normalmente, come se nulla fosse.
Ogni tanto ci riesco: mi dimentico di tutto, perfino del fatto che ho una malattia da trattare come un ospite non invitato che ha deciso di piazzarsi in soggiorno.
Altre volte invece no, crolla il sipario e rimango lì, con la mente che corre, riflette, si arrabbia, si confonde… e si incazza.
Sì, si incazza parecchio.

Mi guardo intorno e vedo che la politica, quella vera, è finita sotto la suola delle scarpe di chi recita la parte del finto equilibrato, cercando di non pestare calli a nessuno, ma finendo per pestare la dignità di tutti.
Un equilibrio finto come la panna spray: gonfia ma senza sostanza.

Viviamo in un Paese dove l’essere umano è diventato una variabile scomoda.
È più importante “mantenere i consensi” che mantenere le promesse.
È più facile parlare di bandiere che di persone.
Più comodo occuparsi di propaganda che occuparsi dei malati, dei poveri, dei lavoratori, dei figli e dei padri che non ce la fanno più.

E mentre questi equilibristi del nulla giocano al circo delle dichiarazioni da salotto, fuori c’è la vita vera.
Quella fatta di corpi che tremano, di anime che lottano, di gente che spera di arrivare alla fine del mese, ma anche alla fine della settimana senza perdere la testa.
E in mezzo ci sono loro: i bugiardi professionisti, i tuttologi del “secondo me”, quelli che parlano senza sapere, che manipolano senza vergogna, che dichiarano tutto il contrario di tutto.
A volte mi chiedo se il virus più pericoloso non sia proprio la disinformazione con la camicia stirata e il sorriso da talk show.

E poi ci sono io.
Che mentre affronto un tumore, mi ritrovo a combattere anche con le tossine del mondo esterno.
E mi dico: Giovanni, ma sei ancora sano di mente?
Ti preoccupi della giustizia, dell’ambiente, della verità, della gente… ma chi te lo fa fare?

Eppure no, non riesco a smettere.
Non riesco a disattivare questa mia coscienza, questa mia dannata voglia di cambiamento.
È come se, anche dentro un corpo malato, il mio spirito restasse sano e incazzato.
È come se la malattia del mondo mi facesse più male di quella del mio corpo.

E allora sì, oggi sono un po’ filosofo, un po’ rivoluzionario, un po’ malato… e un po’ Giovanni.
Il Giovanni che non smetterà mai di sperare, di lottare e di dire le cose come stanno, anche quando tremano le gambe e il cuore va più piano.

Perché alla fine, la vera salute è restare umani.
Anche quando attorno tutto sembra impazzire.
Anche quando il dolore bussa e ti dice: "tocca a te".

E se un giorno qualcuno mi chiederà cosa ho fatto nella mia vita, risponderò così:
“Ho combattuto. Anche quando era più facile stare zitto. Anche quando ero stanco. Anche quando avevo paura. Ma non ho mai chiuso gli occhi davanti all’ingiustizia. Mai.”

giovedì 31 luglio 2025

📝 Diario di bordo n°18 – Luglio 2025

📝 Diario di bordo n°18 – Luglio 2025
"Chemioterapia e altre passeggiate di salute"

Ebbene sì, amici miei, anche questa è andata. La seconda seduta è archiviata, incartata e spedita nel reparto dei "non ci volevi andare, ma ci sei andato comunque".
Testa che gira come una trottola natalizia, gambe come marmellata calda e quella sensazione di stanchezza che ti fa sembrare anche la panchina più scomoda del mondo un letto a cinque stelle. Ma niente paura: sono ancora in piedi.

E mentre facevo la mia terapia, a pochi passi da me c’era un ragazzo – dieci anni meno di me, stessa battaglia, stesso nemico. Lavora in una ditta dell’ex ILVA.
Un altro figlio di questa città che paga, sulla propria pelle, il prezzo del silenzio di chi avrebbe dovuto proteggerci.
Abbiamo parlato. Di malattia, certo. Ma anche di vita. Perché la chemio fa male, ma la verità detta ad alta voce è come un analgesico per l’anima.
E ho capito che nessun rimborso, nessun indennizzo, nessuna parola detta in ritardo può restituire quello che ci è stato tolto.

Ma oggi non me ne sono tornato direttamente a casa. No.
Ho chiesto a mia moglie e a mio figlio di portarmi in centro. Avevo bisogno di vedere la mia città, Taranto, negli occhi.
Avevo bisogno di sentire il suo respiro, le sue grida, i suoi silenzi.
In queste ore la città sta scegliendo il proprio destino. I suoi figli si ribellano, gridano, lottano.
E la politica? Beh… quella locale, come al solito, nicchia, svicola, attende.
Ma Taranto mia… tu meriti molto di più. Meriti coraggio, verità, dignità.
E meriti di guarire anche tu, come noi malati, da quel tumore industriale che ti divora da decenni.

Taranto è come una madre ferita che continua a cucinare per i suoi figli anche se ha il cuore a pezzi.
È come un campo di papaveri rossi cresciuti sopra un terreno avvelenato.
È come un sorriso stanco che non vuole spegnersi.
Taranto è poesia che sanguina, è l’ultima pagina di un libro scritto con lacrime e acciaio.
E oggi più che mai, è anche lei una malata che lotta per guarire.

Mi sono seduto su una panchina. Ho bisogno di scrivervi, di buttare giù queste sensazioni.
E proprio mentre scrivo, si avvicina una signora.
“Signore, posso leggerti la mano?”
La guardo perplesso.
Poi sorrido e le rispondo:
“Signora mia, ho già la mia oncologa che mi legge i referti… e sa predirmi il futuro molto meglio di una mano aperta, e quel futuro per me è stato momentaneamente già scritto.”

Sorrido ancora. Sorrido a lei, a voi, a me stesso.
Perché in fondo la forza è questa: non perdere mai il senso dell’ironia, neanche nei giorni più tosti.

E adesso, permettetemi di chiudere come si deve.

A te, Taranto.
Guarda avanti, anche se tremi.
Cammina, anche se zoppichi.
Ama, anche se ti hanno tradita.
Respira, anche se l’aria pesa.
Guarisci, Taranto mia. Guarisci anche tu.
Perché se io, con tutti i miei acciacchi, posso affrontare questo mostro a testa alta…
allora anche tu puoi.
Perché tu non sei acciaio: sei carne, cuore e fuoco che non si spegne.
E stavolta, vinceremo noi.

Alla prossima battaglia. E ricordate: si cade, ma ci si rialza. Sempre.

mercoledì 30 luglio 2025

📘 Diario di bordo n°17 – luglio 2025

📘 Diario di bordo n°17 – luglio 2025
"Domani... un altro giorno (ma poteva pure aspettare, eh!)"

Ed eccoci qui, cari amici e lettori di questo diario tragicomico in pillole (che però le pillole vere, mannaggia, son tutte per nausea e vomito), alla vigilia della seconda seduta.

Domani è il 31 luglio, e mentre la maggior parte delle persone si prepara per la partenza al mare, io mi preparo per la partenza... verso il lettino deluxe della chemio room, quella con vista flebo e sottofondo musicale "tic tic" delle gocce che scendono come la pazienza in un ufficio postale a fine mese.

Se mi chiedete come sto, vi rispondo come i vecchi saggi di paese:

> "Meglio che se stessi peggio, peggio di come stessi prima."

Eh sì, l’apprensione c’è. Non è che vado lì con il sorriso di chi ha prenotato un lettino a Porto Cesareo. Però ci vado. Con la testa alta, lo sguardo fiero e l’ombelico contratto dalla nausea.
La guerra è guerra. E io ho già indossato l’elmetto.

Nel frattempo, fuori dalla mia piccola grande battaglia personale, Taranto bolle più del termometro che in questi giorni segnava 41°. E non solo per il caldo.
C'è chi lotta per chiudere o ridimensionare l’ex ILVA, e c'è chi, da Roma, continua a offrire tumori con il 2x1, aria irrespirabile in omaggio e lividi politici sotto la maschera dell’industria strategica.

Come se non bastasse, sul lungomare ci vogliono ormeggiare anche una nave rigassificatrice, così per gradire.
Pare sia un omaggio a qualche amico d'oltreoceano, giusto per far capire che l’aria buona è sopravvalutata e che la sicurezza energetica può benissimo coincidere con un’esplosione in slow motion.

E mentre si gioca a Risiko sulla pelle dei tarantini, io aspetto il mio turno, con la cartella clinica sotto braccio, il deodorante fresco di giornata e il classico sacchetto per l’eventuale malessere, che non è fashion ma è sempre di tendenza.

E così domani si va. Seconda seduta. Seconda puntata. Secondo round.
Quasi quasi mi porto i popcorn, che tanto lo stomaco è già in subbuglio.

Domani mattina, puntuale come sempre, varcherò le porte della clinica per la mia seconda infusione di superpoteri sintetici.

Arriverò in anticipo, come al solito, con la maglietta buona e il deodorante steso come una benedizione sotto le ascelle. Farò le scale dove mi aspetta, sempre lei, la Madonnina al secondo piano, che pare ormai mi saluti con un cenno del capo tipo:

> “Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?”

Entrerò nel reparto con il sorriso sdrucito da soldato di ritorno e troverò l’infermiera, la stessa della prima volta, che da sola fa più turni di un call center e più mansioni di un robot giapponese, eppure trova pure il tempo per regalarti una parola buona.

Poi mi sdraierò sul lettino, guardando il soffitto come se fosse il cielo della Cappella Sistina, e sentirò scendere lentamente quella pozione magica che sa di zolfo, battaglie e rinascita.

E lì, proprio in quel momento, penserò che anche questa seconda tappa è iniziata, e che comunque vada, uscirò da quella stanza come un Fantozzi moderno, sudato, confuso, e con la testa che gira, pronto a dire:

> “E anche stavolta ce la siamo cavata. Ora però, se nessuno si offende, vado a svenire con dignità sul sedile della macchina... lato passeggero!”

Perché in questa vita, anche quando la sceneggiatura fa schifo, l'importante è restare protagonisti, ridere quando si può e lottare sempre.
E domani, statene certi, ci sarà un altro capitolo da scrivere, una nuova scena da vivere e, magari, un’altra battuta da inventare per alleggerire tutto questo.

venerdì 25 luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°16 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo n°16 – Luglio 2025
“Quando tutto va a rotoli, lei c’è sempre (e non serve nemmeno il Green Pass!)”

C'è un dettaglio che si ripete in tutte le cliniche, ospedali, ambulatori e case di cura d’Italia.
No, non è la macchinetta del caffè che sputa bicchieri roventi.
Non è nemmeno la sedia di plastica scricchiolante in sala d'attesa.
È lei, la Madonnina di corridoio, ferma lì in un angolo, a metà tra il silenzio e il miracolo.

Ieri mattina salgo le scale del reparto oncologico, rigorosamente a piedi per tenermi “in forma”, anche se a ogni gradino il cuore sembrava urlare “ma chi me l’ha fatto fare?”.
Alzo gli occhi, e come ogni volta, eccola lì, con le mani aperte, lo sguardo sereno, avvolta da un'aura che sa di cerotti e speranza.

Se tutto va a rotoli, lei c'è sempre. E un motivo ci sarà.

Sarà che in certi luoghi si respira fragilità, si tocca la sofferenza, si accarezza la paura...
E allora lì, accanto alle flebo e alle cartelle cliniche, compare sempre una figura familiare, silenziosa ma presente, immobile ma fortissima: la Madonna.

Pensateci un attimo.
Chi di noi non l’ha mai vista?
In ogni corsia, sopra un mobile, in cima a una colonna, su un altarino con centrino ricamato e fiori finti?
È una costante.
Come il “torni tra sei mesi” o il “deve attendere il suo turno”.

Ed è proprio lì che ti chiedi: ma perché, in ogni reparto, in ogni clinica, c’è una Madonnina?

La risposta non è tecnica, ma umana.
Perché quando non sai più a chi rivolgerti, ti rivolgi a chiunque possa ascoltarti anche senza parlare.
E lei è lì per questo: per chi crede, per chi spera, per chi ha finito le parole ma ha ancora una lacrima da versare.

Non sono un cristiano modello, lo ammetto.
Non vado in chiesa, né la domenica né il mercoledì di metà settimana.
Ma quando la vita ti sbatte in faccia la sua durezza, anche il più laico tra gli uomini si appende a una preghiera sgrammaticata.

E poi, non è una cosa nuova.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, nei campi di battaglia e negli ospedali da campo, la prima cosa che i soldati e le infermiere facevano era sistemare un’icona della Madonna accanto al ferito.
Non c’erano antibiotici, né rianimazioni, ma una carezza al cuore faceva miracoli anche senza bisturi.

Anche mia madre, che da brava donna del Sud ha più fede che Wi-Fi in casa, ogni volta che mi chiama mi dice la stessa frase:

> “Affidati a Lei, la Madonnina non lascia nessuno solo.”

E io ci penso.
Forse non sarà miracolosa, non mi curerà lei…
Ma intanto mi guarda. E non scappa.

E se la fede è un salvagente, io in questi giorni me lo stringo forte, anche se sgonfio, anche se malandato, perché mi aiuta a rimanere a galla in questo mare che ogni tanto fa paura.

Quindi sì, ieri salendo quelle scale l’ho vista e l’ho salutata.
Non ad alta voce, non con un’Ave Maria, ma con uno sguardo e un pensiero:

> “Oh Madò, stammi vicino... che qui ci stanno cose che manco la scienza capisce.”

🎭 E voi che leggete, vi dico questo:
Se vi capita di passare davanti a una Madonnina in corsia, non abbiate timore di fermarvi.
Anche solo un secondo, anche solo per dire "grazie" o "aiutami" o solo per stringere gli occhi e respirare.
Lei non giudica.
Lei non fa diagnosi.
Ma sa ascoltare senza mai interromperti.

E se proprio va male... beh, una preghiera può fare più di una TAC.
O quanto meno, ti fa sentire meno solo in sala d’attesa.

giovedì 24 luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°15 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°15 | Luglio 2025
"Prima seduta… e sono ancora qua, eh già!"

Ebbene sì, amici miei.
Sono ancora vivo, spossato ma vivo.
E già solo questo è motivo sufficiente per brindare — idealmente, eh, che lo spumantino per adesso resta un miraggio proibito!

Ma andiamo con ordine.

Ore 8:15. Puntualissimo come sempre (che se c’è da pagare una multa arrivo in ritardo, ma se c’è da affrontare la chemio mi presento in smoking e cravatta mezz’ora prima).
Stamattina ho guidato io, ma con la consapevolezza che al ritorno avrei lasciato il volante a mio figlio, perché dopo certe infusioni non si gioca a fare l’Ayrton Senna di Statte.

Arrivo in clinica, bypasso l’ascensore come un ventenne atletico (almeno nella testa) e affronto le scale.
Ad ogni piano trovo la Madonnina, quella statuina di gesso che ormai è più presente della sanità pubblica.
La osservo, le faccio l’occhiolino e penso: “Tranquilla, ce la metto tutta. Ma se puoi, dammi una spintarella invisibile ogni tanto, che male non fa.”

Al secondo piano la sala è gremita.
Un’aria silenziosa, sospesa. Ci sono parenti che aspettano, pazienti già sotto terapia e io…
Curioso come un bambino che sbircia dietro il sipario prima dello spettacolo, mi aggiro per il corridoio alla ricerca della stanza del destino.

Ed eccola lì: una porticina discreta, due lettini, atmosfera sobria.
Tranquilli, nessuno strumento di tortura medievale in vista, solo flebo, aghi e un silenzio rotto dai bip e dai pensieri.

Arriva lei: l’infermiera tuttofare.
L’unica, la sola, la donna invisibile ma onnipresente che fa tutto: ti accoglie, ti consola, ti infila l’ago con la delicatezza di un origamista giapponese, ti dà consigli, ti cambia la biancheria del letto e – se potesse – ti farebbe pure il caffè.
Una professionista vera, una di quelle che se ne avessimo tre per reparto, altro che sanità a rischio collasso.

Alle 9 in punto mi accomodo sul lettino, di fianco a un altro paziente.
Disorientato, dimentico perfino di salutarlo (e sì che io di solito stringo mani anche agli alberi!).
La terapia parte. Il tempo si ferma. O forse rallenta.

Per due ore e mezza mi fa compagnia il cellulare e i messaggi di mio figlio, che da fuori stanza insieme a mia moglie mi accompagna col pensiero e col cuore.

Poi... il bip finale.
È fatta.
Mi alzo, con la grazia di un elefante uscito da una centrifuga, e vado via.

L'uscita dall’ospedale è epica.
Caldo torrido, sole a picco, tre passi e già rimpiango l’aria condizionata del reparto.
Mi sento come un reduce dalla battaglia, ma con una medaglia al collo invisibile: quella del coraggio quotidiano.

E ora che sono qui, a casa, stanco ma integro,
conservo dentro di me la forza silenziosa di chi ha affrontato la prima tappa di un lungo viaggio.
Un viaggio che non ho scelto, ma che affronto con la mia solita ironia, con le scarpe ben allacciate e lo sguardo avanti.

A chi è nella mia stessa situazione, o ci finirà,
voglio dire questo: la chemio non ti definisce, la tua forza sì.
E anche quando tutto sembra difficile, ricordati che ogni singolo giorno vissuto con dignità e coraggio è una vittoria.

Alla prossima puntata, amici.
Restate connessi, che la nave continua a navigare.
Anche tra le onde più alte.
p.s. in un prossimo capitolo vi parlerò della madonnina onnipresente in ogni luogo di cura con alcune mie riflessioni.

📘 Diario di bordo – N°14 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°14 | Luglio 2025
"Notte prima degli esami... anzi no, della chemio!".

E sì, amici miei cari, mentre il mondo si divide tra chi balla al ritmo del reggaeton in spiaggia, chi accende il barbecue con 40 gradi all’ombra e chi suda solo al pensiero di camminare fino al frigo, io... mi preparo alla mia prima "appuntamicina" con la signorina Chemio.

È la notte prima del “grande giorno”.
Altro che maturità o test universitari.
Io domani alle 9 spaccate, mica devo compilare quiz a crocette o scrivere un tema d’italiano.
No no.
Io ho appuntamento con un cocktail esplosivo, shakerato dalla farmacologia moderna, servito direttamente, senza olive e con un retrogusto di "vinca alcaloide con note agrumate di nausea".

Dovrei dormire, lo so.
Invece?
Google è il mio psicoterapeuta notturno.
Cerco:
“Effetti collaterali chemio prima seduta”,
“sintomi più comuni chemio”,
“come sopravvivere al primo giorno di chemio senza sembrare un cencio da spolvero”.
Risultato?
Un horror degno di Stephen King.
Vomito, nausea, debolezza, stanchezza, sbalzi d’umore, crisi esistenziale, voglia di mangiare solo crackers e guardare fiction turche.

E mentre leggo tutto ciò, tra una ansia e l’altra, il termometro fuori segna 27 gradi alle 01:47.
Certo, perché se devi affrontare la chemio, almeno che non sia in piena estate, perchè ti tocca sudare come un ghiacciolo dimenticato sul cofano di una Panda del ‘95. Invece a me tocca proprio il periodo peggiore, l'estate di fuoco. 😱

Ma sapete una cosa?
Nonostante tutto questo, domani io ci vado.
Sì, ci vado con il sorriso, con lo zaino pronto e una playlist di battute idiote da sparare all’infermiera, se la trovo di buon umore (altrimenti le offro un caffè).
Perché non sarà la chemio a decidere il mio umore. Lo decido io.

E quando leggerete questo post — programmato per essere pubblicato alle ore 9 precise di giovedì 24 luglio, mentre io sarò già lì, sdraiato su un lettino a fare amicizia con la flebo — sappiate che non sarò solo. Oltre a mia moglie e mio figlio in clinica con me, ci sarete tutti voi.
Perché questa avventura voglio viverla condivisa, con sarcasmo, cuore e quella sottile arte dell’auto-supercazzolamento, che salva l’anima anche quando il corpo è sotto attacco.
Quindi forza, signora Chemio.
Si accomodi.
Ma sappia che io non mi piego. Al massimo mi stendo un attimo, poi mi rialzo.

Ci vediamo dopo, cari lettori.
Ora poso il cellulare, mi avvolgo nel lenzuolo come un involtino primavera e provo a dormire.
Che domani si parte, e il coraggio, come sempre, lo porto io.

lunedì 21 luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°13 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°13 | Luglio 2025
Un racconto tra l’assurdo e il tragicomico, con una punta di Fantozzi e una dose intera di quell’ironia che sa sopravvivere anche quando la sanità pubblica ti dà appuntamento… con l’eternità.

“La visita cardiologica e il viaggio nel tempo”.

Qualche settimana fa, carico di speranza e con la potenza del mio nuovissimo codice 048 — quello che dovrebbe aprirti le porte della sanità pubblica come Mosè con il Mar Rosso — mi siedo alla scrivania, apro il portatile e accedo al celebre portale “Puglia Salute”.
Obiettivo: prenotare una visita cardiologica.

Inserisco tutti i dati, codice fiscale, esenzione, magari pure l’oroscopo, e...
✨MAGIA!✨
Compare una disponibilità per il 21 luglio presso l’ospedale di Grottaglie.
"Ma guarda un po’!", esclamo tra me e me, quasi commosso.
Altro che liste d’attesa eterne… stavolta ho avuto culo!
(Scusate il francesismo, ma quando ci vuole, ci vuole).

Prenoto online, stampo la ricevuta con la stessa fierezza di uno che ha appena ricevuto il passaporto per la Svizzera… sanitaria.
Per una volta, niente strutture private, niente bonifici, niente vendite di organi su eBay per potermi curare.

E oggi eccoci qui.
21 luglio.
Mi sveglio, doccia, barba, deodorante sotto le ascelle (che non si sa mai).
Ore 10:00, salgo in macchina con Google Maps in modalità “eroico”.
Mezz’ora dopo sono a Grottaglie, girovago 15 minuti per trovare parcheggio — perché l’ospedale è giustamente circondato da un deserto... tranne che per i parcheggi, dove c'è la densità di Tokyo.

Entro nel reparto.
Sala d’attesa piena di anime pazienti — nel vero senso della parola.
Chiedo come segnalare la mia presenza.
“Attenda… prima o poi qualcuno uscirà”, mi dicono con lo stesso tono con cui si descrive l’apparizione della Madonna a Lourdes.
Finalmente si apre una porta.
Scatta il riflesso da Usain Bolt:
consegno orgogliosamente la prenotazione.
Un’infermiera gentile la prende e mi dice che ci sono solo due pazienti prima di me.
Bene! Penso. Stavolta fila tutto liscio.
Ma...
Plot twist.
Una seconda infermiera esce dalla stanza e chiede con tono solenne:
“Chi è il signor Pugliese?”
Eccomi! Dico io, col sorriso del bambino a cui stanno per dare il gelato.
“Signor Pugliese, vede... il giorno è corretto, il mese anche... ma purtroppo l’anno è sbagliato: la sua prenotazione è per il 21 luglio 2026”.

DUEMILAVENTISEI !!!

In quel momento ho visto la mia anima separarsi dal corpo e dirigersi verso il distributore automatico per cercare conforto in una crostatina del 2019.
Mi sentivo come Fantozzi davanti alla visita col professor Kranz, con in sottofondo un coro di “TAA-TA-TA-TAAA”.

Mestamente, sono tornato a casa.
Muto. Sconfitto. Un uomo. Un 048. Ma soprattutto… un viaggiatore del tempo.
Forse dovrei cominciare a prenotare anche la colonoscopia del 2030, che non si sa mai.

E quindi, miei cari lettori di disavventure sanitarie:
alla fine mi sa che toccherà di nuovo pagare di tasca mia, come sempre, perché tra le liste d’attesa e le speranze disilluse, qui il cuore rischia di scoppiare prima di essere visitato.

Ma attenzione, perché noi non molliamo!
Anzi, la prossima volta magari provo a prenotare con una DeLorean.
O con Doc di Ritorno al Futuro al centralino.

Nel frattempo…
resistiamo, ridiamo, ci curiamo — quando ci riescono — e continuiamo a raccontarla, perché la risata, anche quella amara, è pur sempre medicina.

sabato 19 luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°12 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°12 | Luglio 2025
“Chiamarlo per nome”

Il giorno si avvicina.
Quel famoso 24 luglio ormai è lì, dietro l’angolo, che mi guarda come a dire: “Allora, sei pronto?”
E io?
Io lo guardo a mia volta. Lo squadro. Lo scruto. Lo osservo con un misto di sfida e rispetto.
Perché sì, lo ammetto, la notte qualche pensiero si affaccia senza bussare, e non sempre riesco a mandarlo via.
Si insinua come una corrente d’aria che passa sotto la porta, invisibile ma presente.
Mi giro, mi rigiro, e poi mi alzo a bere un sorso d’acqua o a fissare il soffitto, come se lì sopra ci fosse scritta qualche risposta.

Ma poi mi dico:
Pazienza.
Perché non è tempo di piangersi addosso.
È tempo di guardarlo in faccia, questo male.
Chiamarlo per nome.
Parlargli con il tono fermo di chi non si arrende.
Dargli del tu.
Senza paura, senza deferenza, senza farlo diventare più grosso di quello che è.
È un ospite indesiderato, arrogante, entrato senza chiedere permesso.
E allora io lo tratto per quello che è: un abusivo da cacciare.

Non sarà semplice, lo so.
Me lo ha detto la dottoressa. Me lo dice il corpo. Me lo dice la testa.
Ma non sono solo.
Sono circondato da amici, familiari, conoscenti, e perfino da chi non conosco bene ma mi scrive parole che arrivano dritte al cuore.
Sono quelle parole, quei gesti, quei silenzi pieni di presenza, che mi aiutano a non perdere il passo.

Il 24 sarà un giorno qualunque e insieme un giorno speciale.
Segnerà l’inizio di un nuovo tratto di strada.
Un percorso magari accidentato, pieno di curve e qualche salita.
Ma, come ho già detto, se la strada è in salita, vorrà dire che sto andando verso l’alto.

E allora, anche stanotte se non dormirò, pazienza.
Anche se il cuore peserà più del corpo, pazienza.
Mi stringerò la mano da solo, e poi mi ricorderò di tutte le mani che mi tengono stretto da lontano.

Perché questa battaglia non è solo mia.
È di tutti noi che viviamo, resistiamo, curiamo e ci facciamo curare.
È dei medici che ci trattano come persone e non come numeri.
È di chi combatte ogni giorno anche solo per tenere accesa una piccola luce dentro.

Alla prossima tappa, amici.
Con lo sguardo fiero, il passo lento ma sicuro, e il cuore che, anche se ogni tanto barcolla, non molla. Mai.

📘 Diario di bordo – N°11 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°11 | Luglio 2025

“Giovanni 048, per servirvi (con un modulo timbrato e un pizzico d’autoironia)”

Mattinata interamente dedicata a una delle attività più “entusiasmanti” che la malattia ti regala nel pacchetto completo: la burocrazia.
Già, perché oltre a ricoveri, esami, ecografie e referti spediti su WhatsApp come fossero volantini del supermercato, ti tocca pure rincorrere carte, firme e sigle come se partecipassi a un reality: “Chi vuole diventare un esente fiscale?”

Stamattina, con tutta la mia dignità ben stirata, mi sono presentato all’ASL per ottenere l’esenzione 048, quella riservata ai malati oncologici.
Sì, proprio quella.
Quella che qui a Taranto conosciamo tutti fin troppo bene, ancora prima di sapere l’ora esatta del Telegiornale.
Un numero che, come ho scritto tempo fa in un mio post, fa venire i brividi solo a pronunciarlo.

> “A Taranto basta sentire ‘048’ per sentire un brivido. Non è un numero qualsiasi: è il codice di esenzione per patologie oncologiche. Un codice che, se da un lato garantisce cure gratuite, dall’altro è un marchio silenzioso, una ferita aperta che accomuna troppe famiglie. [...]”

Quel post lo scrissi mesi fa, senza immaginare che un giorno quel codice avrebbe avuto anche il mio nome accanto.
Oggi invece, malgrado tutto, sono ufficialmente anch’io uno “048”.
Singh. 😢
Che vi devo dire… sarà stata premonizione o incoscienza. Forse ero una Cassandra con la testa tra le nuvole e i piedi ben piantati a Taranto.

Comunque sia, per la cronaca: l’intera operazione “esenzione 048” è durata appena 10 minuti.
Roba da Guinness dei primati…
(oppure era il solito caso raro in cui l’impiegata dell’ASL aveva preso il caffè buono).

Ma mica finisce qui.
Ora mi tocca passare dal CAF per la prossima puntata: la 104, quella delle “agevolazioni” che hanno sempre un’aria da “ti aiutiamo… ma prima salta 16 ostacoli, compila 12 fogli, fai una giravolta e dì grazie”.

Nel frattempo, si avvicina anche il 24 luglio, giorno di inizio terapia.
E la testa comincia a frullare come una lavatrice nel programma centrifuga.
Tanti pensieri, qualche ansia, ma anche tanta voglia di affrontare tutto con la forza che mi viene da voi.

Perché sì, lo ribadisco:
non siete solo “amici da social”.
Siete persone vere, concrete, sincere.
Grazie a voi, amici veri, ex colleghi, vecchi compagni di sindacato e di risate, che mi state vicini, mi chiamate, mi scrivete, mi sopportate.
Le vostre parole, i vostri messaggi, anche solo un “come stai oggi?”, sono la cura che non prescrive nessuno, ma funziona più della tachipirina e del cortisone messi insieme.
E io vi voglio bene, sinceramente.

E ora scusate se chiudo con un pizzico di sarcasmo – che è la mia medicina alternativa preferita – ma tra codici, esenzioni, timbri e appuntamenti, sto iniziando a credere che il tumore sia l’unica cosa che arrivi senza prenotazione, senza modulo e senza fila.

E ricordate:
non siamo solo codici. Non siamo solo malati.
Siamo anime piene di forza, coraggio, e – quando serve – anche di una sana, sacrosanta autoironia.
Ridete, amici miei.
Rideteci su.
Che la vita a volte è una bastarda, ma con la risata giusta, non vince mai.

Alla prossima, con lo zaino in spalla, i documenti in ordine, l’umore ballerino ma la volontà incrollabile.
E se proprio mi vedete assorto tra le carte, non preoccupatevi:
sto solo cercando l’ufficio giusto dove presentare la richiesta per essere ancora me stesso, nonostante tutto.

mercoledì 9 luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°10 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°10 | Luglio 2025

“Incontri ravvicinati con la dottoressa (umana), camici volanti e supercazzole terapeutiche.”

Allora, amici miei… ieri è stata “la giornata della conoscenza”.
No, non sono andato in pellegrinaggio da Alberto Angela, ma finalmente ho conosciuto colei che avrà il coraggioso compito di curare settimanalmente il mio "problemino" (che tanto ino non è, ma fa fine dirlo così).
E vi dico subito: donna simpatica, cordiale, empatica, esaustiva… in una parola: umana.
Praticamente l’antitesi vivente del vasetto di yogurt scaduto lasciato sotto il sole, alias il dottore che mi ha mandato l’esito istologico via WhatsApp all’alba come se fosse l’offerta del giorno su Amazon Prime.

Ma andiamo con ordine, come si dice nelle migliori cronache giudiziarie.

La notte prima dell’incontro, non ho chiuso occhio.
Sarà stata la tensione, sarà stata la testa che frullava peggio di un frullatore senza coperchio, sarà stato il classico effetto ansia pre-visita… fatto sta che se ho dormito due ore, è un miracolo degno di Lourdes.

Alle 11:00 ero già pronto. Alle 12:00 l’appuntamento.
Un’ora di anticipo, perché da bravo ex lavoratore puntualissimo se arrivo solo in orario, mi sento in ritardo.
In testa ho una lista mentale di domande che nemmeno Mentana nel suo Tg delle 20.

Arrivo nel reparto, cerco di individuare la famosa “dottoressa X” tra una miriade di camici bianchi che sfrecciano avanti e indietro come astronavi nell’iperspazio.
Intanto, intravedo delle stanzette: due lettini, un lavandino, e fuori seduti alcuni pazienti...
Mi viene il dubbio:
“Ma vuoi vedere che queste sono le famigerate stanze della tortura?"
Ops, volevo dire: “della cura”? 😅

Poi, come nelle migliori scene da film, compare lei: camice bianco, biondina, minuta, con un accenno di sorriso che vale più di mille parole.
Mi fiondo su di lei come un fan su una rockstar e chiedo:
“Lei è la dottoressa X?”
E lei, con calma olimpica:
“Sì, sono io.”

A quel punto, presentazioni, stretta di mano e… via, nello studio.
Con voce un po’ incrinata ma dignitosa, le spiego tutto il malloppone della mia storia clinica che avevo diligentemente preparato, manco dovessi sostenere la tesi di laurea.
Lei mi ascolta. Davvero.
Mi guarda negli occhi. Davvero.
E risponde con chiarezza, empatia, competenza.
In dieci minuti, riesce a farmi capire più lei che l’urologo in dieci settimane.
(Non è che ci volesse molto, eh. Ma lasciatemi esagerare).

E così, ecco il verdetto:
👉 Dal 24 luglio si parte.
👉 Il percorso sarà un po’ tosto.
👉 I cicli non saranno caramelle balsamiche.
Ma io stringerò i denti e andrò avanti.
Perché se non vi ammorbo io con le mie sventure tragicomiche… chi lo fa? 😜

E se qualcuno si stufa, beh, può sempre:
✅ bypassare i miei scritti,
✅ silenziarmi educatamente,
✅ o nella peggiore delle ipotesi, bloccarmi su Facebook e vivere felice.

Ma io, modestamente, vi lascio con una scena che nemmeno “Amici Miei” avrebbe osato scrivere:

> “Mi raccomando, dottoressa, quando cominceremo la terapia faccia attenzione a non interrompere l’azione del ciclo mediante una rotazione delle fiale con la disinvoltura della supercazzola prematurata, perché se la trombositocitosi interagisce col radicale libero del doppio saluto, la biondina rischia l’effetto zingarata, e lì ci vuole un dosaggio di spirito d’iniziativa con contorno di ottimismo e mezza flebo di ironia, sennò mi si scompone l’animo come una carbonara col parmigiano!”

E adesso vi lascio con un pensiero dedicato a tutti quelli come me, che stanno affrontando o stanno per affrontare un ciclo di chemioterapia… e anche a chi gli sta accanto, quei santi laici chiamati amici, figli, mogli, parenti, vicini di poltrona e di cuore.

Ricordatevi sempre una cosa:
questa non è una guerra, perché la guerra è brutta e fa schifo.
Questa è una sfida. Una scalata. Una corsa a ostacoli.
E sì, ogni tanto inciampiamo, ci scappano le lacrime, il nervosismo, le notti insonni…
Ma poi ci si rialza.
Con stile, col sorriso e – se possibile – anche con una bella battuta pronta.

A chi comincia ora dico: non temere.
Sarai più forte di quanto immagini, e quando crederai di aver finito la benzina…
scoprirai che vai avanti a risate, carezze e spruzzate di ironia.

A chi ci accompagna dico:
abbracciate forte, anche solo con lo sguardo.
Non dite “tutto andrà bene”, ma piuttosto “sono qui”.
E ogni tanto, offriteci un gelato o un meme cretino: valgono quanto una flebo di allegria.

E se proprio non sapete cosa fare…
mettete un camice, fingete di essere infermieri e portateci il caffè.
Male non fa, e almeno per un momento, ci sentiremo meno pazienti e più umani.

Dunque avanti tutta.
A testa alta, stomaco forte e cuore leggero.
Che poi, come diceva il saggio (forse uno zio ubriaco):

> "La chemio è come una partita a scacchi con la vita: ogni tanto perdi un pezzo… ma se tieni duro, fai scacco matto col sorriso!"

Alla prossima, con la solita ironia, qualche globulo bianco in più e la voglia matta di rompere le scatole.

sabato 5 luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°9 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°9 | Luglio 2025

“Incontri ravvicinati del terzo tipo… con l’urologo.”

Stamattina, alla buon’ora, incrociando le dita (non per cambiare l’esito dell’istologico – quello era già arrivato in anteprima esclusiva su WhatsApp con tanto di emoji mancata – ma solo per una piccola speranza), speravo che il medico che mi ha operato il 4 giugno si fosse svegliato col piede giusto.
Perché diciamocelo chiaramente: più che un medico, a volte sembra un vasetto di yogurt scaduto, dimenticato da mesi sotto il sole d’agosto su un muretto di Statte.
E attenzione: non metto in discussione la sua professionalità, che anzi, è indiscutibile.
Ma il carattere... ecco, quello sì. Difficile da digerire, come un panzerotto fritto alle sei del mattino.

Arrivo nel suo studio. Attendo il mio turno con l’agitazione di chi sta per fare l’esame di maturità, ma senza la colonna sonora di sottofondo.
Finalmente mi riceve.
E prima ancora che possa dire “si accomodi”, gli sparo subito:
“Pugliese. Dottore, sono Giovanni Pugliese, operato il 4 giugno. Quello del referto su WhatsApp.”

A quel punto lui si ricorda (o finge bene) e parte a scrivere come se stesse compilando una letterina a Babbo Natale, indirizzata però al medico oncologo che dovrà prendersi cura del mio futuro.
Scrive, scrive, firma, piega e consegna.
Dieci minuti. Tempo record.
Più che una visita medica sembrava il ritiro di una raccomandata in posta: “Ecco qui il suo pacco, firmi qui, buona giornata e in bocca al lupo.”
Che dire, l’efficienza è una virtù, ma quando parliamo di corpi, paure, speranze e umanità… magari qualche minuto in più non guasterebbe, dottò!

Riassunto della puntata?
📍 Ho le indicazioni per affrontare l’estate a colpi di terapie e appuntamenti.
📍 Tra tre mesi circa, si torna in clinica.
📍 Altra operazione, altro prelievo, altra analisi.
Insomma: il tour continua. Non è esattamente quello di Vasco, ma siamo lì… solo che qui i biglietti non li paghi in euro, ma in pazienza e coraggio.

E mentre vi scrivo, sospiro.
Profondamente.
Non per commuovermi, ma per dare fiato a quella vocina dentro di me che ogni tanto sussurra:
“Ma perché proprio io?”
E a cui io rispondo, ogni volta:
“Perché chi se non io? Chi ha più ironia, testardaggine e voglia di prenderla con un sorriso amaro se non questo testone pugliese?”

Mi prendo in giro, sì.
Perché se non rido io, chi lo fa?
E perché ridere, anche nel mezzo del buio, è la mia forma preferita di resistenza.

🗞 Cronache da un futuro passato – N°8, Ottobre 2025

🗞 Cronache da un futuro passato – N°8, Ottobre 2025 "Il gelo delle parole e il fuoco della coscienza." Resterà impres...