“L’ospite non invitato (che però si comporta da padrone)”
Mi chiedono spesso:
«Giovanni, ma come stai? Come ti senti? Come va con… lui?»
E io, puntuale come le tasse (di chi le paga), rispondo:
«Sto bene, sto bene.»
Quasi per riflesso, come si dice "ciao" entrando in un bar.
Poi però, se mi fermo due secondi — proprio due, non di più — devo ammettere che “bene bene” non è proprio la frase più esatta del dizionario.
Mi stanco facilmente. Il fiato si accorcia come se qualcuno l’avesse tagliato con le forbici della sarta.
Le gambe ogni tanto sembrano dire: “Ehi, amico, ci fai andare piano?”
La schiena protesta.
La mente corre e si affatica anche lei.
E poi c'è il carattere.
Ecco, quello ha subito un restyling notevole.
Sono più irascibile, più nervoso, più fragile.
La serenità che avevo prima, quella calma che mi faceva respirare le giornate a pieni polmoni, adesso bisogna andarla a cercare con la torcia, come quando cade un bottone sotto il letto.
L’ospite, quello lì, non ha solo preso una stanza.
Ha cambiato i mobili, ha spostato le sedie, ha messo la sua musica, e nemmeno mi piace.
E soprattutto, mi ha tolto la voglia di fare progetti a lungo termine.
E questa… fa male.
E lo so cosa state pensando:
«Giovanni, ma a lungo termine… non sei più un ragazzino…»
E avete pure ragione, vivaddio.
Però lasciatemela, questa cosa.
Perché il progetto non è un calendario.
Non è l’età.
Il progetto è speranza.
È dire: “Domani ci sarò, e avrò ancora voglia di fare.”
Ecco.
È questo che a volte mi manca.
Non il domani, che arriva lo stesso, ma l’entusiasmo con cui lo stavo aspettando.
Però, e lasciatemi chiudere così, come voglio io, io ci sto lavorando.
A piccoli passi.
A piccole riparazioni interne.
A piccoli ritorni alla vita, uno alla volta.
E ogni giorno che riesco anche solo a dire:
“Ok, oggi sono qui, presente.”
È un giorno buono.
È un giorno vinto.
È un giorno mio.
Il progetto, allora, lo faccio lo stesso:
domani ci sono. E domani ci provo ancora.