"Ospedali, odori e umanità perduta (o forse ritrovata)"
Dopo essere uscito dalla clinica per quel "problemino" che, più o meno, tutti quanti sapete (e gli altri lo immaginano), mi faccio coraggio e decido di tornarci… ma solo per chiedere la copia della cartella clinica.
Un’operazione semplice, penserete voi. E invece no. Perché nulla è semplice in Italia, soprattutto in sanità pubblica… soprattutto se il termometro segna temperature da deserto del Sahara.
Arrivo, cerco di individuare una fila che fila non è: una massa informe di esseri umani, chi con la faccia smarrita, chi con la pazienza già terminata, chi con l’aria di chi si è arreso da tempo. Tentar non nuoce, mi dico, e provo a mettermi in coda, o meglio… in una coda, perché di code vere non ce n'è. Intuisco a istinto chi potrebbe essere arrivato prima, cerco sguardi complici, sorrido con fare mansueto, ma l'ordine di arrivo resta una scienza arcana.
Nel frattempo, la calura rende l’aria densa. Vi giuro che le narici imploravano pietà. La situazione, per capirci, era in pieno stile tragico Fantozzi, con gli effluvi delle ascelle dei presenti che avrebbero potuto stendere anche un elefante africano.
Mentre sto per svenire – più per lo sconforto che per gli odori – noto una coppia di anziani. Lui visibilmente preoccupato, lei piegata dal dolore, in piedi a stento. Una scena che ti stringe il cuore. Mi permetto, con rispetto, di dire che potevano passare avanti. Qualcuno mormora, ma io me ne frego: in certi casi, l’umanità deve prevalere sul formalismo.
Quando arrivano allo sportello del CUP, ascolto con attenzione. Hanno bisogno di una TAC urgente. La risposta? "Non prima di sei mesi." La disperazione negli occhi di quei due è una lama. Lui, con uno scatto di dignità, dice:
"Allora pago, ma la facciamo subito."
Prezzo? 400 euro.
Lei, con un filo di voce e le lacrime che scendono come pioggia leggera, gli sussurra:
"Lascia stare… non possiamo permettercelo."
Vi giuro che in quel momento ero pronto a tirar fuori i soldi e iniziare una colletta. Mi tremava il cuore. Ma non ce n’è stato bisogno. Una delle addette del CUP, una donna che voglio ringraziare pubblicamente anche se non conosco il nome, prende il telefono e dopo dieci minuti, che sono sembrati un secolo, riesce a fissare la TAC per il giorno dopo all’ospedale Di Venere di Bari.
Ecco, la buona sanità non è solo fatta di sistemi informatici all’avanguardia, sale operatorie high-tech o direttori generali in giacca e cravatta. La buona sanità è fatta dalle persone, da chi mette cuore e testa oltre le regole, oltre i protocolli. È fatta da chi, anche in un’Italia sgangherata, non si dimentica mai di essere umano.
Faccio appena in tempo a commuovermi e a gioire per il lieto fine, che arriva il mio turno. È fatta, penso, con l’ingenuità di un bambino davanti al gelato.
Inserisco la carta nel POS… e la linea comincia a dare i numeri. Tre tentativi, quattro, cinque… sudore freddo e rischio blocco carta.
Nel frattempo gli odori in sala raggiungono picchi da allarme chimico.
Finalmente, dopo un’esalazione particolarmente letale che mi ricorda l’inferno dantesco, il pagamento passa.
Cartella richiesta. Ora attendo. Anzi no, resisto!
E se qualcuno pensa che mi basti questo piccolo traguardo… beh, si sbaglia.
Sono pronto alla prossima missione, magari con un kit di sopravvivenza da CUP: mascherina profumata, bottiglietta d’acqua e, perché no, un po’ di fiducia nel genere umano.
Alla prossima, con meno ascellari e più umanità.
🖋– Giovanni, viaggiatore instancabile nelle corsie della nostra sanità pubblica.