venerdì 6 giugno 2025

Cronache di un ricovero in clinica – Terza puntata: “L’abbraccio di Morfeo e il risveglio militare”.

Dopo due notti insonni, spese tra cori da stadio, letti che scricchiolano come relitti e colleghi di stanza che sembrano avere un abbonamento al lamento notturno, e la prima passata a casa prima del ricovero, ieri sera sono crollato come un sasso.
Altro che sonno ristoratore: è stato un blackout sensoriale, una resa incondizionata del corpo e della mente. Morfeo, quel vecchio spacciatore di sogni, mi ha preso in braccio come una madre col figlio stanco e mi ha cullato in un sonno profondo, nero come il caffè alle 4 del mattino.

Poi… Bang!

Ore 6:30. Luci sparate in faccia come nei film americani quando la CIA interroga i sospetti. Entra lei: l’infermiera-caporal-maggiore, una donna dal sorriso smagliante ma con lo sguardo di chi potrebbe metterti in riga con un cenno del mento.
“Buongiorno! È l’ora della terapia!”
Boom. Sveglia dritto nel cervelletto. Mi alzo di soprassalto, gli occhi appannati, la bocca asciutta, il cervello ancora a zonzo nei meandri del sogno. Per un attimo ho pensato:

> “Sono morto? È questo il Paradiso? O un campo di addestramento?”

Poi la realtà si riforma, pezzo dopo pezzo: il soffitto bianco, il bip dei macchinari, l’odore di disinfettante... Ah, giusto: sono ancora in clinica.

Ma niente paura, si ricomincia. Il tempo di ritrovare la dignità sotto il lenzuolo stropicciato ed è già spettacolo nel letto accanto: il compagno di stanza, novello protagonista di un’operazione di logistica umana, telefona freneticamente ai suoi familiari di Brindisi per essere prelevato.
“Sto uscendo! Sbrigatevi! No, non c'è bisogno della giacca… no, la busta col cambio l’ho lasciata nell'armadietto della clinica…”
È in quel momento che realizzi una cosa: siamo come pacchi postali, spediti, accettati, ricoverati, dimessi. Con l’unica differenza che i pacchi Amazon almeno arrivano in orario.

E adesso? Ora si attende la OSS, figura mitologica metà infermiera metà madre Teresa, che con fare gentile varcherà la soglia chiedendo:

> “Chi vuole essere lavato per primo?”

Ecco. Oggi, forse, abbasserò lo sguardo, la voce sarà flebile ma sincera, e con una timidezza infantile dirò:

> “Sì… grazie.”

Perché qui, in clinica, l’umiltà si impara in ciabatte, con il pigiama a righe e un cuore che ogni tanto ha solo bisogno di essere curato — non solo con farmaci, ma con un gesto umano.

Alla prossima puntata, da questo piccolo grande universo parallelo chiamato reparto.

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