Oggi ho ricevuto un messaggio che mi ha stretto il cuore. Una delle protagoniste dei miei racconti, con grande educazione e dispiacere, mi scrive e mi chiede, dietro disposizioni ricevute dalla struttura, di rimuovere dai social le foto e i nomi che racconto nelle mie giornate in clinica. Un racconto semplice, umano, senza polemiche. Un modo per alleggerire il peso di un ricovero, per condividere con delicatezza momenti di cura, di incontri, di speranza.
Le immagini erano state già oscurate nei volti, nel pieno rispetto della privacy di tutti. Nei miei scritti non c’era una sola parola fuori posto verso la struttura, né verso chi ci lavora. Anzi: ho cercato solo di restituire dignità e leggerezza a una degenza, di testimoniare che si può vivere anche un ricovero senza perdere il sorriso, il contatto con l’altro, l’umanità.
Eppure, qualcosa ha infastidito la dirigenza. Forse non erano le immagini il problema. Forse erano proprio le parole. Soprattutto quelle finali, in cui osavo parlare di tutele, lavoro, precarietà, referendum, diritti.
Forse lì ho disturbato il manovratore. Forse lì ho superato un confine non scritto: quello che impone di non parlare, non pensare, non rivendicare.
E allora succede questo: ti chiedono, con garbo ma con timore, di cancellare tutto. Di far sparire ciò che è reale. Di tornare al silenzio. E tu, per rispetto di chi te lo chiede e per non creare problemi a chi è già precario e vulnerabile, lo fai. Ma dentro… ti si spezza qualcosa.
Perché non è solo una foto che sparisce, o un nome cancellato. È un pezzo di realtà che viene sepolta. È la paura che torna a vincere. È la dignità che arretra.
Nel frattempo, il referendum sul lavoro è stato affossato. Era prevedibile, ma non per questo meno doloroso. Gli italiani hanno voltato le spalle a una possibilità di riscatto. La classe lavoratrice si è lasciata sedurre dal silenzio, dall’indifferenza, dalla paura. Ha scelto la resa.
E io, oggi, mi chiedo: con quale spirito tornerò in quella clinica?
Con rispetto, certo. Ma anche con tristezza. Perché so che lì dentro ci sono tante persone splendide, professionisti e umani straordinari… che però non possono parlare. Che devono piegare la schiena, abbassare lo sguardo, fingere che tutto vada bene.
Non li giudico. Li comprendo. Perché so quanto è difficile alzare la testa e il costo da pagare.
Ma io, Giovanni, ho deciso di non smettere di raccontare, di riflettere, di denunciare.
Anche se devo oscurare un volto. Anche se devo cancellare un post. Perché la realtà non si cancella. E la dignità, quando la perdi, non la recuperi più.
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