Ebbene sì, cari lettori fedeli, l’ora X è scattata. Il dado è tratto, le dimissioni sono firmate e io – con la fierezza di chi ha appena finito una maratona tra prelievi, punture e brodaglie insipide – mi accingo a imboccare la gloriosa via del ritorno.
Saluto i miei compagni di sventura (ora compagni di rinascita), con quell’affetto tipico da ultima puntata di un reality show:
> “Oh mi raccomando, tienimi aggiornato se ti cambiano il catetere!”
“Un abbraccio, e salutami l’ossigeno!”
Lascio la stanza con passo lento, ma deciso, con il mio inseparabile trolley a ruote cigolanti – che ora pare suonare la colonna sonora di Mission: Impossible.
E mentre le rotelle stridono come se gridassero “Libertààà!”, la mente vaga, nostalgica e sorridente, attraverso i corridoi del ritorno, gli stessi che pochi giorni prima mi hanno portato qui, ignaro del piccolo tsunami emotivo che stavo per vivere.
È sabato. È quasi mezzogiorno.
E nella clinica regna un silenzio irreale, surreale quasi.
Nemmeno una flebo in sospensione, nemmeno il suono del carrello della colazione (quello che arriva sempre o troppo presto o troppo tardi).
Solo io, il mio trolley e un cuore pieno di gratitudine.
Mi scorrono davanti agli occhi i volti di tutte quelle anime belle che hanno popolato questi giorni:
– gli OSS che sanno sempre quando dire “ci vuole pazienza” (ma con l’occhio da sergente di ferro),
– gli infermieri che entrano con ago alla mano e sorriso disarmante,
– gli inservienti che col carrello delle pulizie sembrano suonatori d’arpa celestiale quando passano a sistemare le stanze.
E poi lui, il ragazzo dell’anestesia.
23 anni. Uno meno di mio figlio.
Con una calma olimpica e una voce da meditazione zen,
mi ha spiegato come sarebbe andata l’anestesia epidurale, e senza rendersene conto mi ha sbloccato il livello “coraggio plus”.
Guardandolo negli occhi ho pensato: “se lui è tranquillo, allora non posso certo fare la figura del fifone io!”
(E invece ero già pronto a fingere un malore solo per scappare via, ma non diciamolo troppo forte…)
E mentre scendo le scale (sì, le scale, perché l’ascensore è occupato da un paziente in camicia da notte e con una borsa dell’Eurospin piena di giornali vecchi – autentico mistero da reparto), mi godo questo piccolo trionfo silenzioso.
Cari amici, siamo ormai quasi al capolinea di questa rocambolesca cronaca ospedaliera, ma non posso chiudere senza parlarvi di lei.
Una figura quasi mitologica, che ha attraversato due mondi come una sorta di Virgilio del reparto.
La dolcissima Ilaria.
L’ho incontrata la prima volta al pre-ricovero, con quella sua voce pacata e rassicurante, mentre mi infilava l’ago nel braccio come se stesse raccontando una fiaba.
E poi – come in un film con i colpi di scena ben piazzati – me la ritrovo proprio nel reparto, nei giorni del ricovero.
Come a dire: “tranquillo, ci sono io, ce la facciamo.”
E io, lo ammetto, sul coraggio sono un filone, uno che al solo sentire “puntura” fa le prove generali del testamento.
Ma con lei, no. Con lei ho affrontato tutto come un eroe della mutua.
Nella prossima puntata – forse l’ultima, forse no – vi racconterò meglio di questa presenza luminosa, dolce come il miele (ma professionale come un tecnico di Formula 1), che mi ha fatto credere che anche nei momenti di debolezza, se accanto hai le persone giuste, puoi sempre ritrovare forza e serenità.
Restate sintonizzati, il sipario non è ancora calato.
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