Questa volta niente orari precisi, niente sveglie alle 6 per misurare la pressione, né rumori di carrelli che scivolano nei corridoi come navi nella nebbia.
Stavolta bisogna riavvolgere il nastro e tornare a quel 22 maggio, quando tutto ebbe inizio.
Entravo in clinica per un day hospital con il cuore gonfio di paura, come un bambino il primo giorno di scuola.
Avevo in tasca la carta d’identità, la tessera sanitaria e… una montagna di pensieri.
Il mio corpo era lì, seduto in sala d’attesa, ma la mia mente era un vortice: e se succede qualcosa? E se l’anestesia fa male? E se non ce la faccio?
Un via vai di persone. Medici, pazienti, infermieri.
Tutti con la loro storia, i loro silenzi, i loro sguardi bassi.
E poi, in mezzo a quel frastuono composto, una voce: “Pugliese? Chi è Pugliese?”
Alzo lo sguardo e incontro un sorriso che rompe il muro della paura.
Lei è Ilaria. Un’infermiera giovane, sveglia, sicura.
Ma soprattutto gentile, di quella gentilezza rara, spontanea, che non si può insegnare.
Mi accompagna per i prelievi, per l’elettrocardiogramma, e tra una fiala e un cerotto inizia anche a curare le mie ansie.
Le confesso con tono tra il serio e il tragicomico che “l’epidurale mi fa più paura dell'operazione.
Lei sorride. Ma non ride di me. Mi capisce. E trova le parole giuste.
Ed è proprio lei, davanti all’anestesista, che con voce ferma suggerisce:
> “Dottore, meglio un leggero sedativo prima dell’epidurale. Lo aiuterà a stare più tranquillo.”
Ecco, quel momento non lo dimenticherò mai.
Non era solo professionalità.
Era umanità. Era prendersi cura. Era mettersi nei panni dell’altro.
Le dissi con la voce incrinata dall’emozione:
> “Mi hai dato coraggio. Mi hai fatto sentire meno solo.”
E lei, quasi sorpresa:
“Dici davvero?”
Certo che dico davvero. E lo ridirei cento volte.
>"Stai tranquillo, ci vediamo il 4 giugno in reparto" esclama lei, "sono una delle infermiere del reparto dove sarai di stanza". 😇
Quando poi, il 4 giugno, arriva il momento dell’intervento, la ritrovo lì, con lo stesso sorriso e la stessa dolcezza.
Si affaccia nella stanza, mi saluta con un “ciao” luminoso e io capisco in un istante che tutto andrà bene.
Perché in fondo, anche nei momenti più bui, basta una luce. Anche piccola. Ma vera.
Ecco, cari lettori, questa è la fine (forse) della mia cronaca.
Non so se vi ho fatto sorridere, riflettere o magari solo compagnia.
So solo che ho cercato, con un pizzico di ironia e una dose abbondante di cuore, di trasformare la paura in racconto, il dolore in condivisione, la fragilità in forza collettiva.
Adesso mi aspetta l’attesa del referto, quella che non si racconta mai nei film, ma che tutti i pazienti conoscono bene.
Un’attesa fatta di silenzi lunghi e pensieri che vanno e vengono.
Ma oggi so una cosa in più: non siamo mai davvero soli.
C’è sempre una mano tesa, un sorriso inaspettato, una parola che ci fa sentire visti e ascoltati.
E lasciatemi aggiungere ancora una cosa:
Tutti questi eroi in camice, questi angeli che ho conosciuto nei miei giorni in clinica, sono per la maggior parte lavoratori precari, tirocinanti, con contratti a termine.
Sono loro che ogni giorno reggono il peso della sanità, senza certezze ma con un’enorme umanità.
E pensando a loro, ai miei angeli, questa mattina andrò a votare per il referendum, e voterò SI, proprio per loro.
Perché meritano dignità, stabilità, rispetto.
Perché chi si prende cura di noi, merita di essere protetto.
E se posso concludere con un desiderio, è questo:
> Siate gentili. Sempre. Perché la gentilezza è una medicina potente. Non costa nulla, ma salva l’anima. La propria e quella degli altri.
A voi, che mi avete seguito, grazie.
Magari ci rivedremo… magari ci riscriveremo.
Intanto, abbracciate la vita. Anche nei corridoi di una clinica. Anche con un camice addosso. Anche con un referto in arrivo.
Con tutto l'amore che posso verso chi soffre,
🖋 Giovanni Pugliese.
🩺💙🌿