giovedì 26 giugno 2025

📘 Diario di bordo – N°3 | Giugno 2025.

📘 Diario di bordo – N°3 | Giugno 2025.

Riflessioni serali in un momento di fantasia sfrenata durante un attacco di leggera paranoia (versione soft).

C’è un momento, quasi sempre dopo cena, in cui la mia mente — invece di rilassarsi — decide di fare le prove generali per una nuova serie Netflix dal titolo: “Ma dove stiamo andando a finire?”
La trama è semplice: il mondo è nel caos, la gente impazzisce, la politica deraglia, la natura si ribella… e io sogno.

Sì, sogno.
Sogno un posto come quello della foto che ho davanti agli occhi.
Una spiaggia al tramonto, una coperta, due cuscini, un falò, una bottiglia di vino, e il silenzio interrotto solo dal suono delle onde.
Niente notifiche, niente bollette, niente telegiornali che sembrano horror, niente polemiche social da tastiera.
Solo natura, calma e un briciolo di pace interiore che non guasta mai.

Nel frattempo, nella realtà, il mondo si comporta come un bambino capriccioso con la febbre a 40.
Le guerre aumentano, i prezzi salgono, i diritti scendono e la stupidità... vola.
Sembra che la serenità collettiva sia stata dichiarata fuorilegge o peggio ancora, considerata comunismo romantico.

E allora mi rifugio in questi pensieri.
Sogno di brindare con qualcuno che non parli di guerra, ma di sogni.
Di guardare il fuoco e non il fuoco incrociato di notizie che fanno a pugni con la verità.
Di stare in riva al mare come se fosse l’unica vera patria possibile.

Lo so, magari è una fuga.
Ma a volte evadere con la mente è l’unico atto rivoluzionario rimasto.

Perciò, se mi cercate, sappiate che mentalmente sono lì.
Sulla sabbia.
A discutere con le stelle e a ridere con la luna.
Col bicchiere mezzo pieno (di rosso), anche se – diciamolo – il vino mi è stato rigorosamente proibito dal medico.
Quindi sì, lo ammetto: è una trasgressione puramente immaginaria, un brindisi alla salute fatto solo con la mente.
Ma che volete… anche la fantasia ogni tanto ha bisogno di ubriacarsi di libertà.

📘 Diario di bordo – N°2 | Giugno 2025

📘 Diario di bordo – N°2 | Giugno 2025

Ieri pomeriggio ho ricevuto uno di quei messaggi che ti cambiano il battito per qualche secondo, ma poi ti rimettono in pace con il mondo.
Un mio caro amico, ex collega di lavoro, mi ha scritto per dirmi che dopo circa 70 lunghissimi giorni ha finalmente ricevuto l’esito della sua biopsia.
Ed è tutto ok.
Sospiro di sollievo e un gran sorriso.

Sono felicissimo per lui.
Perché è una di quelle persone che ti fanno ancora credere nella bontà umana: sincero, genuino, leale.
E non lo dico tanto per dire. Durante i miei giorni di ricovero, si è preso la briga di venirmi a trovare in clinica. E sai, non è scontato. Quelle visite che sembrano piccole, ma ti scaldano il cuore come una coperta in pieno inverno.
Un gesto che porta dentro una stima profonda, vera.

Caro amico mio, questa vittoria è anche un po’ mia.
E ora incrocio le dita per me. 🤞

L’attesa del referto, come ben sai, è una di quelle esperienze che ti fanno diventare un misto tra un monaco zen e una pentola a pressione.
Cerchi di respirare, ma dentro ti sale un nervosismo che nemmeno tre camomille e un corso di yoga tantrico riescono a placare.
Eppure si resiste. Si va avanti.
Io non demordo. Aspetto. Con il sorriso (o almeno ci provo).

Ah, quasi dimenticavo:
in molti mi avete scritto chiedendomi dove acquistare il mio libro.
Ora, lasciate che ve lo dica chiaro:
non ho scritto nessun libro!
Non ho firmato contratti con Mondadori, non mi hanno chiamato da Feltrinelli, e nemmeno mia zia mi ha proposto di farmi stampare qualche pagina su carta da forno. 😅

Dovete accontentarvi dei miei "sfoghi social" dove, come un piccolo giullare digitale, metto in piazza emozioni, pensieri, battute e riflessioni.
Con un pizzico di ironia, una spruzzata di sarcasmo, e quel tocco di colore che serve per sdrammatizzare le cose serie e rendere leggere anche le giornate più pesanti.

E ora scusate, ma vado a controllare se per caso nel frattempo è arrivato l’esito anche per me...
(altrimenti, passo direttamente alla fase 2: interrogare le stelle o corrompere il postino!) 🌠📬😄

A presto amici miei.
Con affetto e sempre con un pizzico di follia (quella buona).
p.s. sopportatemi per quello che sono. 🤷‍♂️

lunedì 23 giugno 2025

📔 Diario di Bordo – N.1, Giugno 2025"Ospedali, odori e umanità perduta (o forse ritrovata)"

📔 Diario di Bordo – N.1, Giugno 2025
"Ospedali, odori e umanità perduta (o forse ritrovata)"

Dopo essere uscito dalla clinica per quel "problemino" che, più o meno, tutti quanti sapete (e gli altri lo immaginano), mi faccio coraggio e decido di tornarci… ma solo per chiedere la copia della cartella clinica.
Un’operazione semplice, penserete voi. E invece no. Perché nulla è semplice in Italia, soprattutto in sanità pubblica… soprattutto se il termometro segna temperature da deserto del Sahara.

Arrivo, cerco di individuare una fila che fila non è: una massa informe di esseri umani, chi con la faccia smarrita, chi con la pazienza già terminata, chi con l’aria di chi si è arreso da tempo. Tentar non nuoce, mi dico, e provo a mettermi in coda, o meglio… in una coda, perché di code vere non ce n'è. Intuisco a istinto chi potrebbe essere arrivato prima, cerco sguardi complici, sorrido con fare mansueto, ma l'ordine di arrivo resta una scienza arcana.
Nel frattempo, la calura rende l’aria densa. Vi giuro che le narici imploravano pietà. La situazione, per capirci, era in pieno stile tragico Fantozzi, con gli effluvi delle ascelle dei presenti che avrebbero potuto stendere anche un elefante africano.

Mentre sto per svenire – più per lo sconforto che per gli odori – noto una coppia di anziani. Lui visibilmente preoccupato, lei piegata dal dolore, in piedi a stento. Una scena che ti stringe il cuore. Mi permetto, con rispetto, di dire che potevano passare avanti. Qualcuno mormora, ma io me ne frego: in certi casi, l’umanità deve prevalere sul formalismo.

Quando arrivano allo sportello del CUP, ascolto con attenzione. Hanno bisogno di una TAC urgente. La risposta? "Non prima di sei mesi." La disperazione negli occhi di quei due è una lama. Lui, con uno scatto di dignità, dice:
"Allora pago, ma la facciamo subito."
Prezzo? 400 euro.
Lei, con un filo di voce e le lacrime che scendono come pioggia leggera, gli sussurra:
"Lascia stare… non possiamo permettercelo."

Vi giuro che in quel momento ero pronto a tirar fuori i soldi e iniziare una colletta. Mi tremava il cuore. Ma non ce n’è stato bisogno. Una delle addette del CUP, una donna che voglio ringraziare pubblicamente anche se non conosco il nome, prende il telefono e dopo dieci minuti, che sono sembrati un secolo, riesce a fissare la TAC per il giorno dopo all’ospedale Di Venere di Bari.

Ecco, la buona sanità non è solo fatta di sistemi informatici all’avanguardia, sale operatorie high-tech o direttori generali in giacca e cravatta. La buona sanità è fatta dalle persone, da chi mette cuore e testa oltre le regole, oltre i protocolli. È fatta da chi, anche in un’Italia sgangherata, non si dimentica mai di essere umano.

Faccio appena in tempo a commuovermi e a gioire per il lieto fine, che arriva il mio turno. È fatta, penso, con l’ingenuità di un bambino davanti al gelato.
Inserisco la carta nel POS… e la linea comincia a dare i numeri. Tre tentativi, quattro, cinque… sudore freddo e rischio blocco carta.
Nel frattempo gli odori in sala raggiungono picchi da allarme chimico.
Finalmente, dopo un’esalazione particolarmente letale che mi ricorda l’inferno dantesco, il pagamento passa.

Cartella richiesta. Ora attendo. Anzi no, resisto!

E se qualcuno pensa che mi basti questo piccolo traguardo… beh, si sbaglia.
Sono pronto alla prossima missione, magari con un kit di sopravvivenza da CUP: mascherina profumata, bottiglietta d’acqua e, perché no, un po’ di fiducia nel genere umano.

Alla prossima, con meno ascellari e più umanità.
🖋– Giovanni, viaggiatore instancabile nelle corsie della nostra sanità pubblica.

mercoledì 11 giugno 2025

🏥 🩺 Un racconto interrotto. E una riflessione amara sulla libertà e la dignità.

Oggi ho ricevuto un messaggio che mi ha stretto il cuore. Una delle protagoniste dei miei racconti, con grande educazione e dispiacere, mi scrive e mi chiede, dietro disposizioni ricevute dalla struttura, di rimuovere dai social le foto e i nomi che racconto nelle mie giornate in clinica. Un racconto semplice, umano, senza polemiche. Un modo per alleggerire il peso di un ricovero, per condividere con delicatezza momenti di cura, di incontri, di speranza.

Le immagini erano state già oscurate nei volti, nel pieno rispetto della privacy di tutti. Nei miei scritti non c’era una sola parola fuori posto verso la struttura, né verso chi ci lavora. Anzi: ho cercato solo di restituire dignità e leggerezza a una degenza, di testimoniare che si può vivere anche un ricovero senza perdere il sorriso, il contatto con l’altro, l’umanità.

Eppure, qualcosa ha infastidito la dirigenza. Forse non erano le immagini il problema. Forse erano proprio le parole. Soprattutto quelle finali, in cui osavo parlare di tutele, lavoro, precarietà, referendum, diritti.

Forse lì ho disturbato il manovratore. Forse lì ho superato un confine non scritto: quello che impone di non parlare, non pensare, non rivendicare.

E allora succede questo: ti chiedono, con garbo ma con timore, di cancellare tutto. Di far sparire ciò che è reale. Di tornare al silenzio. E tu, per rispetto di chi te lo chiede e per non creare problemi a chi è già precario e vulnerabile, lo fai. Ma dentro… ti si spezza qualcosa.

Perché non è solo una foto che sparisce, o un nome cancellato. È un pezzo di realtà che viene sepolta. È la paura che torna a vincere. È la dignità che arretra.

Nel frattempo, il referendum sul lavoro è stato affossato. Era prevedibile, ma non per questo meno doloroso. Gli italiani hanno voltato le spalle a una possibilità di riscatto. La classe lavoratrice si è lasciata sedurre dal silenzio, dall’indifferenza, dalla paura. Ha scelto la resa.

E io, oggi, mi chiedo: con quale spirito tornerò in quella clinica?
Con rispetto, certo. Ma anche con tristezza. Perché so che lì dentro ci sono tante persone splendide, professionisti e umani straordinari… che però non possono parlare. Che devono piegare la schiena, abbassare lo sguardo, fingere che tutto vada bene.

Non li giudico. Li comprendo. Perché so quanto è difficile alzare la testa e il costo da pagare.
Ma io, Giovanni, ho deciso di non smettere di raccontare, di riflettere, di denunciare.

Anche se devo oscurare un volto. Anche se devo cancellare un post. Perché la realtà non si cancella. E la dignità, quando la perdi, non la recuperi più.

domenica 8 giugno 2025

Cronache di un ricovero in clinica – Sedicesima (e probabilmente ultima) puntata. Senza orario. Solo il tempo delle emozioni.

Questa volta niente orari precisi, niente sveglie alle 6 per misurare la pressione, né rumori di carrelli che scivolano nei corridoi come navi nella nebbia.
Stavolta bisogna riavvolgere il nastro e tornare a quel 22 maggio, quando tutto ebbe inizio.

Entravo in clinica per un day hospital con il cuore gonfio di paura, come un bambino il primo giorno di scuola.
Avevo in tasca la carta d’identità, la tessera sanitaria e… una montagna di pensieri.
Il mio corpo era lì, seduto in sala d’attesa, ma la mia mente era un vortice: e se succede qualcosa? E se l’anestesia fa male? E se non ce la faccio?

Un via vai di persone. Medici, pazienti, infermieri.
Tutti con la loro storia, i loro silenzi, i loro sguardi bassi.
E poi, in mezzo a quel frastuono composto, una voce: “Pugliese? Chi è Pugliese?”
Alzo lo sguardo e incontro un sorriso che rompe il muro della paura.

Lei è Ilaria. Un’infermiera giovane, sveglia, sicura.
Ma soprattutto gentile, di quella gentilezza rara, spontanea, che non si può insegnare.
Mi accompagna per i prelievi, per l’elettrocardiogramma, e tra una fiala e un cerotto inizia anche a curare le mie ansie.
Le confesso con tono tra il serio e il tragicomico che “l’epidurale mi fa più paura dell'operazione.
Lei sorride. Ma non ride di me. Mi capisce. E trova le parole giuste.

Ed è proprio lei, davanti all’anestesista, che con voce ferma suggerisce:

> “Dottore, meglio un leggero sedativo prima dell’epidurale. Lo aiuterà a stare più tranquillo.”
Ecco, quel momento non lo dimenticherò mai.
Non era solo professionalità.
Era umanità. Era prendersi cura. Era mettersi nei panni dell’altro.

Le dissi con la voce incrinata dall’emozione:

> “Mi hai dato coraggio. Mi hai fatto sentire meno solo.”
E lei, quasi sorpresa:
“Dici davvero?”
Certo che dico davvero. E lo ridirei cento volte.

>"Stai tranquillo, ci vediamo il 4 giugno in reparto" esclama lei, "sono una delle infermiere del reparto dove sarai di stanza". 😇

Quando poi, il 4 giugno, arriva il momento dell’intervento, la ritrovo lì, con lo stesso sorriso e la stessa dolcezza.
Si affaccia nella stanza, mi saluta con un “ciao” luminoso e io capisco in un istante che tutto andrà bene.
Perché in fondo, anche nei momenti più bui, basta una luce. Anche piccola. Ma vera.

Ecco, cari lettori, questa è la fine (forse) della mia cronaca.
Non so se vi ho fatto sorridere, riflettere o magari solo compagnia.
So solo che ho cercato, con un pizzico di ironia e una dose abbondante di cuore, di trasformare la paura in racconto, il dolore in condivisione, la fragilità in forza collettiva.

Adesso mi aspetta l’attesa del referto, quella che non si racconta mai nei film, ma che tutti i pazienti conoscono bene.
Un’attesa fatta di silenzi lunghi e pensieri che vanno e vengono.
Ma oggi so una cosa in più: non siamo mai davvero soli.

C’è sempre una mano tesa, un sorriso inaspettato, una parola che ci fa sentire visti e ascoltati.

E lasciatemi aggiungere ancora una cosa:
Tutti questi eroi in camice, questi angeli che ho conosciuto nei miei giorni in clinica, sono per la maggior parte lavoratori precari, tirocinanti, con contratti a termine.
Sono loro che ogni giorno reggono il peso della sanità, senza certezze ma con un’enorme umanità.
E pensando a loro, ai miei angeli, questa mattina andrò a votare per il referendum, e voterò SI, proprio per loro.
Perché meritano dignità, stabilità, rispetto.
Perché chi si prende cura di noi, merita di essere protetto.

E se posso concludere con un desiderio, è questo:

> Siate gentili. Sempre. Perché la gentilezza è una medicina potente. Non costa nulla, ma salva l’anima. La propria e quella degli altri.

A voi, che mi avete seguito, grazie.
Magari ci rivedremo… magari ci riscriveremo.
Intanto, abbracciate la vita. Anche nei corridoi di una clinica. Anche con un camice addosso. Anche con un referto in arrivo.

Con tutto l'amore che posso verso chi soffre,
🖋 Giovanni Pugliese.
🩺💙🌿

Cronache di un ricovero in clinica – Quindicesima puntata: Fuga per la vittoria.


Ore 11:55 – Sabato
Ebbene sì, cari lettori fedeli, l’ora X è scattata. Il dado è tratto, le dimissioni sono firmate e io – con la fierezza di chi ha appena finito una maratona tra prelievi, punture e brodaglie insipide – mi accingo a imboccare la gloriosa via del ritorno.

Saluto i miei compagni di sventura (ora compagni di rinascita), con quell’affetto tipico da ultima puntata di un reality show:

> “Oh mi raccomando, tienimi aggiornato se ti cambiano il catetere!”
“Un abbraccio, e salutami l’ossigeno!”

Lascio la stanza con passo lento, ma deciso, con il mio inseparabile trolley a ruote cigolanti – che ora pare suonare la colonna sonora di Mission: Impossible.
E mentre le rotelle stridono come se gridassero “Libertààà!”, la mente vaga, nostalgica e sorridente, attraverso i corridoi del ritorno, gli stessi che pochi giorni prima mi hanno portato qui, ignaro del piccolo tsunami emotivo che stavo per vivere.

È sabato. È quasi mezzogiorno.
E nella clinica regna un silenzio irreale, surreale quasi.
Nemmeno una flebo in sospensione, nemmeno il suono del carrello della colazione (quello che arriva sempre o troppo presto o troppo tardi).
Solo io, il mio trolley e un cuore pieno di gratitudine.

Mi scorrono davanti agli occhi i volti di tutte quelle anime belle che hanno popolato questi giorni:
– gli OSS che sanno sempre quando dire “ci vuole pazienza” (ma con l’occhio da sergente di ferro),
– gli infermieri che entrano con ago alla mano e sorriso disarmante,
– gli inservienti che col carrello delle pulizie sembrano suonatori d’arpa celestiale quando passano a sistemare le stanze.

E poi lui, il ragazzo dell’anestesia.
23 anni. Uno meno di mio figlio.
Con una calma olimpica e una voce da meditazione zen,
mi ha spiegato come sarebbe andata l’anestesia epidurale, e senza rendersene conto mi ha sbloccato il livello “coraggio plus”.
Guardandolo negli occhi ho pensato: “se lui è tranquillo, allora non posso certo fare la figura del fifone io!”
(E invece ero già pronto a fingere un malore solo per scappare via, ma non diciamolo troppo forte…)

E mentre scendo le scale (sì, le scale, perché l’ascensore è occupato da un paziente in camicia da notte e con una borsa dell’Eurospin piena di giornali vecchi – autentico mistero da reparto), mi godo questo piccolo trionfo silenzioso.

Cari amici, siamo ormai quasi al capolinea di questa rocambolesca cronaca ospedaliera, ma non posso chiudere senza parlarvi di lei.
Una figura quasi mitologica, che ha attraversato due mondi come una sorta di Virgilio del reparto.
La dolcissima Ilaria.
L’ho incontrata la prima volta al pre-ricovero, con quella sua voce pacata e rassicurante, mentre mi infilava l’ago nel braccio come se stesse raccontando una fiaba.
E poi – come in un film con i colpi di scena ben piazzati – me la ritrovo proprio nel reparto, nei giorni del ricovero.
Come a dire: “tranquillo, ci sono io, ce la facciamo.”
E io, lo ammetto, sul coraggio sono un filone, uno che al solo sentire “puntura” fa le prove generali del testamento.
Ma con lei, no. Con lei ho affrontato tutto come un eroe della mutua.

Nella prossima puntata – forse l’ultima, forse no – vi racconterò meglio di questa presenza luminosa, dolce come il miele (ma professionale come un tecnico di Formula 1), che mi ha fatto credere che anche nei momenti di debolezza, se accanto hai le persone giuste, puoi sempre ritrovare forza e serenità.

Restate sintonizzati, il sipario non è ancora calato.
🎬👨‍⚕️🧳

Cronache di un ricovero in clinica – Quattordicesima puntata: La valigia sul letto... quella di un lungo viaggio.


Ore 11:00
🎼 La valigia sul letto… è quella di un lungo viaggio, cantava Julio Iglesias con quel tono da conquistatore che non si spiega.
E invece la mia valigia, piazzata sul letto con nonchalance e un po’ di polvere accumulata in questi giorni, è quella del ritorno. Non un lungo viaggio, no… ma una traversata epica tra flebo, carrelli rumorosi e minestroni d’ordinanza, che, credetemi, manco Ulisse con la sua Odissea.

Telefono a casa:

> “Sto per uscire, venitemi a prendere!”
E mentre dall’altra parte sento un:
“Chiudi bene la valigia e non ti dimenticare la cartella clinica!” nella mia mente inizia a scorrere il film di questi gloriosi e grotteschi giorni trascorsi in clinica.
Altro che Netflix! Qui è roba da David di Donatello.

Rivedo come in un flashback cinematografico quel primo giorno d’ingresso:
dopo aver compilato modulistica degna di una dichiarazione dei redditi, arriva lui…
il “Caronte del corridoio”,
un signore gentile ma eternamente attaccato al telefonino, probabilmente per un dibattito filosofico esistenziale con un parente che – a giudicare dal tono – non rivedrà tanto presto per le feste comandate.

Con un gesto tra il messianico e il distratto, mi fa cenno di seguirlo.
Io, con la mia valigetta alla “Fantozzi in trasferta”, lo seguo silenzioso in un labirinto di corridoi che manco il Minotauro avrebbe avuto il coraggio di esplorare.
E dove mi parcheggia?
In uno stanzone neutro, grigio, dove trovo un'altra degente, seduta anche lei con l’aria da “chi me l’ha fatto fare”.

Passano cinque minuti e, con una grazia da mimo stanco, l’omino mi indica un altro corridoio, più buio e minaccioso, e mi dice con sguardo vago:

> “Vai lì in fondo… la tua stanza.”
Come se mi stesse indicando il portale per Narnia.

Entro e voilà: il sancta sanctorum della mia degenza.
La stanza mitica. Quella da cui è partita questa saga ospedaliera, quella dove sono nate le mie cronache, tra un misurino di pressione e una fesa di tacchino rinsecchita.
Nemmeno il tempo di posare la valigia e guardarmi attorno, che arriva un infermiere che sembrava il protagonista di un film di guerra:

> “Spogliati tutto, camice e via. Sala operatoria. In barella.”

Io, senza nemmeno sapere se avessi sbagliato porta o reparto, mi ritrovo in mutande (più spirituali che fisiche) a dover decidere quale dei tre letti occupare, come in un reality show sanitario:
Letto n.1: quello accanto alla finestra (freddo e pieno di spifferi),
Letto n.2: quello centrale (quindi il più esposto a ogni rumore),
Letto n.3: quello vicino al bagno (con ovvie conseguenze olfattive).

Dopo un rapido bim bum bam (giuro), punto sul letto a sinistra.
Scelta disgraziata.
Ma di questa scellerata decisione vi parlerò nella prossima puntata.

Spoiler: c’entrano un telecomando assente, un comodino bloccato e… un coinquilino notturno che russa come una motosega impazzita.

Restate sintonizzati: la saga continua, e non risparmierà nessuno! 😎🛏️💉

Cronache di un ricovero in clinica – Tredicesima puntata: Missione compiuta, si torna a casa.


Ore 10:40
🎺 Rullo di tamburi, squilli di tromba, partono le fanfare!
Sì, cari amici e affezionati lettori delle mie tragicomiche avventure cliniche… ce l’ho fatta!
Missione compiuta. Obiettivo raggiunto. Traguardo tagliato.
La “pipì della libertà” è finalmente stata prodotta, misurata, analizzata, accettata, e benedetta!
Posso finalmente affermarlo con orgoglio: si torna a casa.

Ma andiamo con ordine.

Ore 10:30 circa, dopo essermi svuotato più che il lago di Garda in piena estate, ho premuto con energia il tasto della campanella, con la stessa solennità con cui si suona il campanello di fine lezione a scuola.
Arriva l’infermiera, mi guarda, io le mostro il trofeo, anzi, la coppa del mondo in versione trasparente piena di liquido ambrato (ma non pensate male!).
Lei annuisce con un sorriso e dice:

> "Perfetto, ora aspettiamo solo l’ok del medico."
Applausi registrati. Pubblico in piedi.

E io, emozionato come un attore al suo debutto, mi sdraio con gli occhi al soffitto, lasciando che i pensieri si rincorrano:
“Ce l’hai fatta”, “torni a casa”, “non sentirai più il beeeeeep del saturimetro”, “niente più flebo che gocciola come un metronomo ansioso”.

Ed è proprio in quell’attimo sospeso tra realtà e sogno che…
la porta si spalanca con teatralità.
Un bagliore illumina la stanza.
E lei entra.

No, non è la Madonna (anche se per un attimo ho avuto il dubbio), non è la vincitrice di Miss Universo, è Giada.
Sì, Giada, l’angelo in carne, ossa e sorriso, con un foglio in mano che per me ha più valore della Costituzione Italiana.

> “Ecco le tue dimissioni, puoi andare. Tanti auguri!”

In quel momento il mio cuore ha fatto un salto carpiato, i miei occhi si sono velati di commozione e le mie gambe, per la prima volta dopo giorni, hanno sentito la voglia di alzarsi e danzare.
Giada ha pronunciato le parole più belle mai udite in clinica, altro che “la febbre è scesa” o “il brodo è caldo”.
Quelle parole erano musica celestiale.

E non finisce qui:
le chiedo timidamente il permesso di poterla citare nelle mie “cronache cliniche”.
Lei non solo accetta con entusiasmo, ma mi chiede l’amicizia su Facebook!
Ragazzi, io sto per uscire con la cartella clinica in una mano e una nuova amicizia nell’altra!

Ecco, è giunto il momento.
Rimetto i miei panni civili (che ormai odorano più di disinfettante che di casa), chiudo la borsa, saluto i miei compagni di stanza con un mezzo inchino da imperatore giapponese e…
mi incammino verso la libertà.

A chi ha seguito queste puntate con affetto, ironia, messaggi, cuori, like, e parole dolci:
non vi lascio, eh!
La saga continua, perché anche fuori dalle pareti della clinica ci sono cose da raccontare.
E, detto tra noi, ho ancora due o tre aneddoti che meritano la vostra attenzione.

Stay tuned, amici cari.
Il paziente è dimesso, ma il cronista non si ferma! 💙💉✍️

Cronache di un ricovero in clinica – Dodicesima puntata: L’attesa.


Ore 10:00.
Ebbene sì, cari amici delle “cronache cliniche”, siamo al gran finale.
La valigia è pronta (o meglio, la borsa con due pigiami stropicciati e il dentifricio consumato).
Lo spirito è alto, le speranze alle stelle e già immagino l’aroma del caffè di casa che mi accoglie come una nonna premurosa.
Ma – e c’è sempre un “ma” – c’è ancora un’ultima prova da superare, l’ultimo livello del videogioco chiamato "ricovero": l’urina di controllo.

Eh già.
Per poter dire “ciao clinica” e tornare finalmente nel mio focolare domestico, bisogna riempire quel benedetto contenitore. Non una goccia, non due, ma la quantità minima per essere presi sul serio dal laboratorio.

Ed è qui che casca l’asino.
Non so se è colpa dell’ansia da prestazione, o di un attaccamento quasi sentimentale alle infermiere e alle OSS che mi coccolano ogni giorno, ma il mio organismo – come dire – fa orecchie da mercante.
Ho già bevuto due bottigliette d’acqua come se fossi appena tornato dal deserto del Sahara, sto per aprire la terza, ma nel contenitore… il nulla cosmico.
O quasi.
Diciamo che è più un bicchierino da degustazione che una porzione da analisi medica.

Nel frattempo, scatta la scena da commedia all’italiana.
Faccio su e giù per la stanza come un condannato in cerca della grazia, con lo sguardo perso nel vuoto e le mani giunte in preghiera laica.
Ogni tanto, si affaccia l’infermiere con quel classico “Beh?” che in realtà significa:

> “Allora, hai fatto il tuo dovere oppure ci tocca rimandare tutto?”

Io, con lo sguardo basso e un filo di voce, rispondo:

> “Ancora poco…”

Dopo mezz’ora, cambio di attori: si presenta l’OSS. Stessa scena, stessa domanda.
E io? Stessa misera risposta.
A questo punto mi sento come quei mariti degli anni ’80, vestiti male e con i baffi storti, che camminano avanti e indietro dietro il vetro della sala parto, aspettando notizie della partoriente… solo che qui il bambino è una pipì che non vuol nascere!

Sarà la sindrome del paziente? Sarà il timore inconscio di abbandonare il nido protetto della clinica, dove ogni mattina ti chiedono come stai e ti sistemano il cuscino con amore?
Non lo so.
So solo che questo flusso bloccato è diventato metafora della vita: quando tutto sembra andare per il verso giusto, c’è sempre qualcosa che ti costringe ad aspettare.

Ma io non mollo.
La casa mi aspetta.
E anche il mio bagno, il mio caffè, le pantofole e – diciamolo – la mia privacy.

E allora sì, cari amici, oggi si combatte contro l’ultimo nemico: la vescica timida.
Ma vi prometto che ce la farò.
E se tutto va come deve, la prossima puntata sarà un inno alla libertà… dalla stanza XX! 💪💧🚽

Cronache di un ricovero in clinica – Undicesima puntata: “Pronto buongiorno… è la sveglia”

Ore 7:00.
“Pronto buongiorno… è la sveglia.”
Solo a pronunciarle queste parole, ai più nostalgici tremano le ginocchia e nella testa parte il ritornello di una vecchia canzone dei mitici Pooh. Altro che smartphone, qui la sveglia arriva in modalità analogica: porta che si spalanca, luce sparata in faccia e voce gentile (ma decisa) dell’infermiera che, con tono serafico, ci riporta nel mondo dei vivi.

Eccoci qui, dunque.
Nuovo giorno, stesso letto.
Una clinica di quartiere, un ospedale dal cuore grande, ma con i muri che trasudano di notti difficili.
La notte è passata tra due incubi principali:

1. La Nazionale italiana di calcio che si è fatta umiliare in TV (grazie ragazzi, ci avete fatto sentire come se ci avessero tolto il caffè al mattino);

2. I soliti schiamazzi notturni del quartiere, con urla, motorini e qualche canzone neomelodica in sottofondo, che nemmeno Radio Maria riuscirebbe a coprire.

E mentre sto lì, ancora stropicciandomi le palpebre e tentando di capire se sono sveglio o se sto sognando Fabio Caressa che commenta il mio ECG, ecco l’ingresso trionfale delle nostre infermiere di reparto.
Sorridenti, energiche, e con gli strumenti appesi al collo come cowgirl moderne del bene, si avvicinano a ognuno di noi come se fossimo opere d’arte da restaurare.
Pressione? Ok. Temperatura? A posto. Battito? Ancora ce l’hai.
Tutto perfetto, sembrerebbe.

Poi, arriva la notizia bomba, quella che ti fa alzare di colpo anche se non potresti:
“Se tutto va bene, dopo l’ultimo controllo… può anche essere dimesso.”

‼️ MOMENTO EPICO ‼️
Ecco, è in quel preciso istante che capisci che Dio esiste.
Non solo: è esistito, ti ascolta e ha anche le sembianze di un’infermiera col camice leggermente spiegazzato e il fonendoscopio rosa shocking.

Il cuore batte (finalmente, in modo regolare), la testa gira (ma solo per l’emozione), e il pensiero va subito a casa:

Il tuo letto.

Il tuo bagno.

Il tuo cuscino.

Il tuo Wi-Fi che prende sempre.

E la colazione con il pane vero, non quello che qui somiglia a un mattoncino Lego da mordere.

Ma non corriamo troppo.
C’è ancora una prova finale da superare: la famosa “operazione” sulla carcassa, come la chiamo io.
Nulla di grave, eh. Solo quell’ultimo passaggio tecnico che serve a confermare che sei pronto al mondo esterno.
Sì, perché qui dentro ci hanno rimesso insieme con cura, pazienza e tanta professionalità, ma là fuori il mondo è una giungla e bisogna essere preparati!

E allora, per ora stacco qui.
Vado a fare quello che mi hanno detto.
Ma con dentro un sorriso e un pensiero fisso: la voglia di tornare a casa è tanta, e questa volta, senza nemmeno passare dal via.

Incrociate le dita per me, amici.
E se tutto va bene… la prossima puntata sarà da casa mia! 🏡😉

Cronache di un ricovero in clinica – Decima puntata: “Forza Azzurri (e forza anche gli occhi)”

Ore 21:00.
Nella quiete della clinica cala il silenzio…
Un silenzio apparente, perché sta per succedere qualcosa di grosso.
Altro che somministrazione serale di ansiolitici: stasera gioca la Nazionale!

E qui in reparto, tra una flebo e una tachipirina, scatta l’operazione “Ultrà in pigiama”.
La TV – che di solito trasmette repliche di telenovelas bulgare o pubblicità di creme per le emorroidi – improvvisamente diventa sacra.
Un altare, una reliquia, una specie di San Siro a cristalli liquidi… anche se, diciamolo, è piccola quanto uno specchietto retrovisore.

Ma che importa?
Si organizza la visione con una strategia degna della NASA:
sedie spostate chirurgicamente per trovare l’angolo giusto, sguardi incrociati come quelli dei cecchini nei film, e una retina che chiede pietà, perché per distinguere un pallone da una formica ci vuole il coraggio di un falco pellegrino.

Io, con la foga da tifoso e il dolore dell'operazione ancora presente, mi siedo storto ma fiero, come chi sa che il dolore passa ma l’orgoglio azzurro resta.
Qualcuno scherza: “Speriamo che non ci facciano salire la pressione…”
Io rispondo: “Tranquillo, se vinciamo c’è già il personale pronto col misuratore.”

E poi parte la magia:
il calcio d’inizio.
Occhi puntati, cuore in gola.
La stanza si trasforma.
Non è più una camera di degenza, ma uno stadio in miniatura, con pareti color pastello e luci al neon.

Al primo tiro dell’Italia si alza il primo “OOOH!”…
e poco dopo il secondo “AAAH!” per un’occasione mancata.

Siamo un gruppo eterogeneo, ma quella maglia azzurra ci unisce tutti, proprio come una flebo condivisa.
Il bello è che non servono parole, basta un’occhiata per capire se è corner, rigore o strazio.

E anche se l’audio gracchia, e il commentatore sembra parlare da dentro una lavatrice, noi resistiamo.
Perché siamo tifosi veri.
Perché siamo italiani.
E perché, in fondo, questa partita ci fa sentire vivi, presenti, normali.
Anche se seduti in pigiama, con un cuscino dietro la schiena e il braccialetto identificativo al polso.

Questa decima puntata la dedico agli ultrà da corsia, a chi tifa con lo sguardo e con l’anima,
a chi stasera dimenticherà per novanta minuti il motivo per cui è qui dentro.

E come si dice in questi casi:
FORZA AZZURRI… e che vinca la salute!
🇮🇹⚽🛏️

Cronache di un ricovero in clinica – Nona puntata: “La cena è servita… e pure l’identità”

Ore 18:00 spaccate.
Il rito della sera ha inizio. Le ombre si allungano, la TV gracchia un po’ troppo alta dalla stanza accanto, e nel corridoio cominciano a farsi sentire i carrelli tintinnanti.
È l’ora della cena, signori e signore.
Un momento sacro, il terzo e ultimo spartiacque della giornata dopo colazione e pranzo. Il tempo qui dentro, l’ho detto e lo ripeto, non lo misuri con l’orologio ma con la posata.

Ed ecco che, come da copione, entra in scena Lei, la regina del carrello, la signora della cena, la maestra del menù personalizzato.
Con mossa elegante e tono familiare entra in stanza, distribuisce vassoi come se stesse servendo a Buckingham Palace e si ferma davanti a me.
Mi fissa.
Solleva il dito indice in modo solenne, un po’ da inquisitore medievale, un po’ da zia al pranzo di Natale, e…
“Io conosco tua moglie… e conosco pure te!”

😳
Silenzio.
Trattengo il cucchiaio sospeso a mezz’aria.
“Oddio,” esclamo io, con l’aria colpevole di chi ha appena rubato un biscotto di nascosto, “spero che non sia una brutta cosa…”
Ma lei ride: “Ma no, cosa dici! Siamo compaesani. Ti ho visto a Statte più volte.”

E lì scatta la svolta.
Mi si gonfia il petto, il cuore si allarga:
vuoi vedere che sto diventando un VIP a mia insaputa?
Un Ferragni del corridoio C? Un influencer di corsia?
Altro che ricovero… qui è tutto un reality, solo che invece dei followers ho i globuli bianchi e i valori delle analisi!

Così, sull’onda dell’entusiasmo e del riconoscimento popolare, le chiedo se posso immortalarla con una foto, per raccontare questo simpatico episodio nella mia saga clinica. Lei acconsente con la grazia di chi è abituata al successo, e io già penso alla caption su Facebook: “La signora che conosce tutti, Statte compresa!”

Ma torniamo al punto focale:
la cena.

Nel vassoio, l’apertura è con un minestrone di verdure con riso. Ora, diciamolo:
non è proprio il mio piatto del cuore.
Sarà che è troppo buono, sarà che ha troppe verdure, sarà che mi ricorda certi esperimenti scolastici delle mense anni ‘80, ma lo assaggio solo per educazione. Giusto un paio di cucchiaiate, come si fa con la zia che cucina male ma ci tiene tanto.

Poi passo al secondo:
fesa di tacchino con contorno di carote rosse.
E qui devo dire che il tacchino fa il suo lavoro, non entusiasma, non delude. È onesto, fa la sua parte.
Accompagno il tutto con l’immancabile panino mignon, che ormai è diventato più famoso del mio referto. Credo abbia più presenze in stanza di qualsiasi altro essere vivente.

A chiudere il banchetto, l’anguria.
Sorpresa! Fresca, dolce, quasi estiva, che a questo punto ci voleva come un ombrellone in corsia.

Insomma, una cena sobria, niente da chef stellati, ma neanche da denuncia.
D’altra parte, se volevo mangiare foie gras andavo da Cracco, non in una struttura sanitaria accreditata.
E va bene così.

Concludo questa nona puntata sorridendo, con lo stomaco semipieno e il cuore grato.
Perché anche oggi ho scoperto qualcosa: che a volte basta una frase gentile e un viso amico per sentirsi un po’ più a casa.

A domani, amici miei.
E ricordate: se una signora entra e dice di conoscervi…
state calmi. Potrebbe solo essere la vostra prossima fan! 😄

Cronache di un ricovero in clinica – Ottava puntata. Ore 17 – Il nuovo degente di stanza

La quiete del pomeriggio viene frantumata dal cigolio di una sedia a rotelle che varca l’ingresso della stanza come fosse un trono mobile. A bordo, un nuovo coinquilino di stanza, accompagnato da una OSS con l’entusiasmo di chi sta consegnando un premio Nobel alla convivenza civile:
“Vedrà, qui si sta benissimo. Ottima compagnia!”
Traduzione simultanea nella mia testa: “Auguri.”

L’uomo si sistema con l’aria di chi ha appena acquistato un appartamento e subito si lamenta del comodino troppo alto. Un classico. Il primo impatto, come al primo appuntamento al buio, è fondamentale. E qui siamo già al livello: “Mi aspettavo di meglio dalle foto”.

Con uno sguardo che cerca solidarietà, punto gli occhi sull’altro paziente, quello che ho soprannominato “Brontolo” la prima notte dopo l’operazione. Ora capisco che quel soprannome era forse un complimento.

Poi, ecco il colpo di scena. Il nuovo arrivato, con un balzo degno di un miracolo televisivo, si alza dalla sedia e si fionda alla finestra. La vista deve avergli rievocato tempi antichi, tipo "Romeo e Giulietta" versione parcheggio multipiano, perché comincia a chiamare i suoi parenti con una voce che pare uscita direttamente dal ventre di un contrabbasso.

“Marìààààà! Giggiiiiiì! So' qua suuuu!”

Per un attimo ho pensato che volesse annunciare la sua presenza anche al quartiere limitrofo. Nessuna risposta, ovviamente. I parenti giù per strada sembrano non sentire. E io penso: “Meno male. Qualcuno lassù ci ama.”

Poi, il baritono si volta verso di me e chiede con tono ansioso:
“Ma qui prende il telefonino?”
Vorrei rispondergli con un saggio monologo in stile TED Talk su come, nel 2025, anche i piccioni abbiano il 5G integrato nel becco. Ma mi limito a un diplomatico:
“Più o meno…”

Quando finalmente riesce a telefonare, capisco che l’unico vantaggio del suo tono di voce è che si potrebbe comunicare anche senza campo.
“SONO ARRIVATOOOOOO!!! STO NELLA STANZA XXX!!! SI! X-X-X! CON DUE SIGNORI MOLTO GENTILI!”

“Molto gentili”? Non so se ringraziarlo o cercare su Google se ci sono stanze insonorizzate.

Il tutto è successo in appena trenta minuti. Una mezz'oretta che è sembrata una miniserie in otto episodi con finale aperto.
E la notte deve ancora cominciare.

Speriamo bene.
Anzi, incrociamo le flebo.

Cronache di un ricovero in clinica – Settima puntata: “Il ritorno del pranzo da seduti”

Ore 12:30.
“Il pranzo è servito!”
A dirlo non è uno chef in smoking né un maître con guanti bianchi, ma la nostra meravigliosa inserviente, che sbuca sulla soglia della stanza come un annuncio del destino, con la mitica frase di rito:
“Chi si può alzare e chi no?”

Al che, io — con un moto d’orgoglio, una fiammella di dignità appena riaccesa e la postura di chi ha vinto almeno una battaglia — rispondo pronto:
“Io posso, finalmente ho finito l’agonia del pranzo a letto!”

Lei sorride, sincera, e con quella dolcezza che solo chi fa questo lavoro con il cuore può avere, dice:
“Benissimo, sono veramente contenta per voi.”
E no, cari lettori, queste non sono frasi di circostanza.
Per chi è qui dentro, lontano dal suo letto, dai suoi oggetti, dalle sue abitudini, ogni parola gentile è un balsamo, ogni frase sentita è una carezza che sfiora l’anima.

E ora passiamo al piatto forte del giorno: il pranzo.
Ebbene sì, siamo tornati al solido.
Dite quello che volete, ma dopo giorni di semiliquidi dal colore incerto, vedere un piatto di pasta con zucchine ha avuto lo stesso effetto di una cena stellata.
Pur non essendo un fan di questo genere di minestra (anzi, a casa mia le zucchine solitamente hanno vita breve e destino infelice), oggi ne ho mangiata metà porzione con gusto e senza fiatare.

Secondo piatto?
Stelle di pollo impanate, probabilmente al forno, con contorno di verdura cotta.
Un piatto sobrio, onesto, dignitoso, che mi ha fatto sentire, almeno per mezz’ora, un uomo riconciliato con la digestione.
Frutta: una banana.
Pane: il solito piccolo panino, sempre più piccolo, quasi simbolico, ma ormai parte integrante dell’esperienza spirituale.

E mentre gustavo il tutto, seduto (!!!) al tavolino, con una mano sulla forchetta e l’altra sul cuore, riflettevo su quanto conti il sostegno vero.
Perché i messaggi che ricevo, le chiamate, i commenti sotto i miei post… sono il termometro dell’affetto sincero.
Quello che non dipende da ruoli, da incarichi, da “posti che contano”.
Quello che resta quando non hai più nulla da dare se non la tua sincerità, la tua umanità, nuda e cruda.

Grazie. Davvero.
A voi che leggete, a voi che mi scrivete, a voi che ci siete.
Perché anche da un letto di clinica, con una banana come dessert e un lenzuolo che pizzica, ci si può sentire amati.

Alla prossima puntata,
che magari si intitolerà: “Il misterioso ritorno della camminata autonoma”… ma non corriamo troppo.

🔺️ Cronache dal (quasi) Grand Hotel San Camillo 🏨😷

Molti mi chiedono dove sto passando queste "vacanze forzate". Ebbene sì, vi scrivo dalla suite del Carlo Fiorino Hospital, che per noi nati ai Tamburi resta sempre la San Camillo: la clinica più amata da chi non voleva andarci.

Sto qui, cercando di domare il tempo che non passa mai… e già che ci sono, mi improvviso cronista di corsia. Pensieri ne ho tanti, storie ancora di più — alcune meglio lasciarle tra le lenzuola d’ospedale.

Spero di non annoiarvi… ma in caso, potete sempre cambiare reparto! 😜

venerdì 6 giugno 2025

Cronache di un ricovero in clinica – Sesta puntata: “Houston, ho lasciato il letto”.

Ore 11:10.
Entra in stanza un’infermiera. Aria decisa, passo sicuro, sorriso che sa già tutto prima ancora di chiedere.
"Bene, oggi può sedersi sul bordo del letto."
Così, con la naturalezza con cui si annuncia che c’è il sole fuori, lei mi comunica la notizia dell’anno.

Sì, amici, avete capito bene: mi hanno dato il permesso di sedermi.
Non di camminare, non di ballare il tip tap, ma di sedermi ai bordi del letto.
Una roba che fino a ieri sembrava banale quanto bere un bicchiere d’acqua, oggi è diventata l’evento più atteso dopo il cenone di Natale.

Mi raccomandano:
“Attento, non si alzi in piedi, potrebbe girarle la testa.”
E io, con fare da astronauta che deve mettere piede sulla Luna, prendo fiato e affronto la sfida.

Ma prima… eh già, prima c’è il momento della vestizione.

Chiedo timidamente se può porgermi l’intimo dal comodino. Lei, dolce e professionale, si offre di aiutarmi.
Ma no!
La mia testardaggine (che ormai ha un nome proprio) si ribella, e con un misto di orgoglio, goffaggine e un pizzico di vergogna, declino l’aiuto.
E allora via, parte la scena da circo, una sorta di acrobatica lotta corpo a corpo con mutanda e gravità, il tutto condito da smorfie di sforzo, sospiri degni di un montaggio alla Rocky Balboa, e quel pensiero costante:
“Ma chi me lo fa fare?”

Alla fine, sudato come dopo una maratona immaginaria e con la schiena che urla vendetta, ce la faccio.
Pronto. Rifornito. Intimato.
È il momento.

1… 2… e 3!
Mi sollevo.
Mi siedo.
In equilibrio precario, con i piedi che sfiorano il pavimento e la schiena che chiede pietà… ma seduto.
Finalmente.

È successo.
Dopo giorni in posizione supina come un bradipo con la cervicale, mi sono sollevato.
È poco, lo so. Ma per chi sta in ospedale, ogni gesto è una conquista. Ogni passo (anche se solo mentale) è un viaggio.

E così, seduto sul mio trono instabile, guardo la stanza con occhi diversi.
Sento l’aria diversa, quasi più leggera.
È un piccolo ritorno alla vita. Un passo incerto verso la normalità.

“Un piccolo passo per l’uomo, un grande evento per il ricoverato.”

Alla prossima puntata, sempre qui dal fronte, dove il bordo del letto è la nuova frontiera dell’esplorazione umana.

🔴 Cronache di un ricovero in clinica – Quinta puntata: “Gli angeli con la maglietta celeste”.

“L’inserviente vien di notte con le scarpe tutte rotte…”
Eh no, questa è la Befana. Qui invece sono le 10 del mattino, l’orologio biologico è tarato sul post-colazione e pre-visita medica, e fa il suo ingresso il team più sottovalutato della sanità: gli inservienti.

Sì, loro. I mitici, i silenziosi, i custodi del pulito.
Non portano stetoscopi al collo né camici bianchi al vento, non prescrivono terapie né misurano pressioni, ma credetemi: senza di loro, altro che degenza… si sprofonderebbe nel caos e nella muffa emotiva.

Entrano con discrezione, scarpe silenziose, sguardo attento, gesto preciso.
Hanno il potere quasi mistico di spazzare via polvere, germi e un po’ anche il malumore, mentre con uno spruzzo di disinfettante rendono l’aria più respirabile (anche se con quel profumo da alcool etilico in stile "sambuca scaduta", ma fa parte del gioco).

Il letto, dopo il loro passaggio, sembra uscito da una pubblicità di ammorbidente. Il pavimento, che fino a un minuto prima ti sembrava “tollerabile”, diventa impeccabile, e ti accorgi che la tua stanza è più pulita della tua stessa casa.
“Ma com’è possibile? A casa mia il bagno non brilla così nemmeno dopo due ore con Vetril e bestemmie.”

Con le loro magliette celesti, sono un po’ ninja, un po’ samurai del mocio, e con quella gentilezza tipica di chi sa che ogni gesto conta, riescono a non disturbare nemmeno quando ti girano attorno con la scopa mentre tu tenti di ricordare in che giorno siamo.

A loro va il mio inchino e la mia gratitudine sincera.
Perché non è solo questione di pulizia: è che ci fanno sentire in un posto degno, curato, rispettato.
E quando sei in pigiama da tre giorni e la tua autostima giace sotto il letto, fidati, avere una stanza pulita ti rimette al mondo.

Grazie, angeli del pulito.
Grazie, custodi silenziosi delle corsie.
Grazie per ogni spruzzo, ogni spazzata e ogni sorriso accennato mentre passate al prossimo letto.

Ci vediamo domattina, stessa ora, stesso spruzzo.
E magari, stavolta, cerco di non farvi inciampare nel carrello della flebo.

Alla prossima puntata, amici.
Dal fronte lucido e profumato della clinica, è tutto.

Cronache di un ricovero in clinica – Quarta puntata: “L’ora della colazione”.

Ore 8:00. Il silenzio è rotto da un tintinnio lieve, quasi aristocratico. Arriva lei, la colazione, il primo dei tre momenti cardine che scandiscono la giornata del ricoverato.
Dimenticate orologi, calendari e app di mindfulness: qui il tempo si misura in pasti.
Che ore sono?
“Tra colazione e pranzo.”
Oppure:
“Dopo cena ma prima della pressione.”

Ed eccoci, dunque, all’appuntamento con il vassoio sacro. Io, che a casa bevo solo un espresso nero, crudo, con una bustina di zucchero di canna (perchè è più salutare??), e senza pietà, preparato dalla mia eroica macchinetta a cialde (che ormai considero più affidabile di certi medici di base), in clinica mi sono scoperto amante del tè slogan latte.

Sì, l’ho chiamato così perché non so bene come si chiami: è un tè, ma c’ha del latte dentro, ma non è un cappuccino e non è nemmeno un tè al latte all’inglese. È… tè slogan latte.
Un nome che fa chic e nasconde un cuore tiepido e vagamente insapore. Ma in questo contesto suona come un tocco british, quasi un atto di ribellione con il mignolo alzato.
“Altro che espresso. Da oggi sono un gentleman!”

L’accompagnano dei biscottini dal sapore rassicurante, buoni nella loro semplicità, e che – attenzione – non avrei mai mangiato a casa, ma qui assumono un valore quasi esistenziale.
È la sindrome da “minima cosa – massimo significato”.

Nel vassoio troneggiano la marmellatina e le fette biscottate. Io le guardo, le studio…
E poi con una strategia degna di una partita a scacchi con Kasparov, le metto da parte. Non si sa mai: verso le 10:17 potrei avere un languorino, e voglio essere pronto.
Perché, si sa: in clinica, chi ha la marmellatina in tasca ha un tesoro.

Ora, cari lettori affezionati, vi devo fare una confessione delicata.
Il motivo per cui mi tengo leggero a colazione non è solo il poco appetito, e nemmeno la malinconia del caffè casalingo... ma è la presenza inquietante della “pala”.

Sì, LA PALA.
Chi è stato ricoverato lo sa.
Chi non lo è mai stato, pensi a qualcosa tra l’attrezzo di tortura medievale e la vendetta postmoderna della società contro chi ha ancora un po’ di dignità.

Non vi preoccupate, non ve ne parlerò oggi.
La “pala” merita un capitolo a parte. Un romanzo, forse. O una tragedia greca.
Devo trovare le parole giuste, quelle che non urtino la sensibilità di nessuno… ma che vi facciano comunque capire che certe esperienze lasciano il segno. E non sempre metaforico.

Per ora, chiudo qui.
Con il tè slogan latte in mano e il pensiero che anche oggi, il vero lusso… è una digestione tranquilla.

Alla prossima puntata.
Sempre dal letto n. 110 del reparto, dove la vita scorre a biscotti e ironia.

Cronache di un ricovero in clinica – Terza puntata: “L’abbraccio di Morfeo e il risveglio militare”.

Dopo due notti insonni, spese tra cori da stadio, letti che scricchiolano come relitti e colleghi di stanza che sembrano avere un abbonamento al lamento notturno, e la prima passata a casa prima del ricovero, ieri sera sono crollato come un sasso.
Altro che sonno ristoratore: è stato un blackout sensoriale, una resa incondizionata del corpo e della mente. Morfeo, quel vecchio spacciatore di sogni, mi ha preso in braccio come una madre col figlio stanco e mi ha cullato in un sonno profondo, nero come il caffè alle 4 del mattino.

Poi… Bang!

Ore 6:30. Luci sparate in faccia come nei film americani quando la CIA interroga i sospetti. Entra lei: l’infermiera-caporal-maggiore, una donna dal sorriso smagliante ma con lo sguardo di chi potrebbe metterti in riga con un cenno del mento.
“Buongiorno! È l’ora della terapia!”
Boom. Sveglia dritto nel cervelletto. Mi alzo di soprassalto, gli occhi appannati, la bocca asciutta, il cervello ancora a zonzo nei meandri del sogno. Per un attimo ho pensato:

> “Sono morto? È questo il Paradiso? O un campo di addestramento?”

Poi la realtà si riforma, pezzo dopo pezzo: il soffitto bianco, il bip dei macchinari, l’odore di disinfettante... Ah, giusto: sono ancora in clinica.

Ma niente paura, si ricomincia. Il tempo di ritrovare la dignità sotto il lenzuolo stropicciato ed è già spettacolo nel letto accanto: il compagno di stanza, novello protagonista di un’operazione di logistica umana, telefona freneticamente ai suoi familiari di Brindisi per essere prelevato.
“Sto uscendo! Sbrigatevi! No, non c'è bisogno della giacca… no, la busta col cambio l’ho lasciata nell'armadietto della clinica…”
È in quel momento che realizzi una cosa: siamo come pacchi postali, spediti, accettati, ricoverati, dimessi. Con l’unica differenza che i pacchi Amazon almeno arrivano in orario.

E adesso? Ora si attende la OSS, figura mitologica metà infermiera metà madre Teresa, che con fare gentile varcherà la soglia chiedendo:

> “Chi vuole essere lavato per primo?”

Ecco. Oggi, forse, abbasserò lo sguardo, la voce sarà flebile ma sincera, e con una timidezza infantile dirò:

> “Sì… grazie.”

Perché qui, in clinica, l’umiltà si impara in ciabatte, con il pigiama a righe e un cuore che ogni tanto ha solo bisogno di essere curato — non solo con farmaci, ma con un gesto umano.

Alla prossima puntata, da questo piccolo grande universo parallelo chiamato reparto.

OSS

Questa mattina una OSS è entrata in camera e, con grande delicatezza, mi ha chiesto se volevo essere lavato. Non potendomi muovere dal letto, ho ringraziato ma ho declinato.
Una lacrima mi è scesa sul viso.
Non era solo per l'imbarazzo, ma per quella sottile ferita che si apre quando ci si sente fragili, quando la dignità si scontra con il bisogno.
Un grazie sincero a chi ogni giorno si prende cura, con rispetto e umanità, anche di ciò che non si vede: la nostra anima. ❤️

Cronache di un ricovero in clinica – Seconda puntata: “Notte brava ai Tamburi”

È ufficiale: se esiste una forma alternativa di movida, più creativa e anarchica della notte romana degli anni ’60, questa si svolge nel cuore pulsante del rione Tamburi. Altro che Ibiza.

Ore 23,45: luci basse, campanello d’allarme del vicino che ha premuto il tasto "Aiuto" per sbaglio (o forse per noia). Ore 00: il letto cigola come se ci fosse un’orchestra di grilli sotto al materasso. Ore 1: l’infermiera entra in punta di piedi… con gli zoccoli da guerra.
Ma il clou, cari lettori affezionati delle mie Cronache di un ricovero in clinica, arriva alle 4 del mattino.

Immaginate: la finestra con un piccolo spiraglio aperta per cercare un alito di vento, un’illusione di frescura, e all’improvviso… un coro da stadio. Non sto scherzando. Un manipolo di ragazzini dodicenni intonava con la passione di una curva sud in trasferta l’inno della loro squadra del cuore.

“Chi non salta bianconero è!”, gridavano con l’entusiasmo di chi ignora il significato profondo della parola "decibel".

Io, a quel punto, mi sono voltato verso il mio coinquilino di stanza — che chiameremo "Gemito Notturno", per la sua abitudine di lamentarsi a cadenza regolare ogni 8 minuti — e gli ho sussurrato:

> “Senti anche tu il derby?”
Lui ha risposto con un mugugno che, nella mia mente stanca, ho interpretato come:
“Stanno vincendo ai rigori.”

Il tempo di metabolizzare il mini-concerto che sono arrivate le infermieri ninja. Perché sì, di giorno sono dolci e professionali, ma di notte si trasformano in creature mistiche capaci di aprire porte senza toccarle, camminare senza lasciare impronte… salvo poi sbadigliare in stereo davanti al distributore del caffè.

Alle 6:30, il rito si compie. L’infermiera del turno del mattino entra con l’aria di chi ha dormito bene — e questo, già di per sé, è un affronto —, apre la finestra (finalmente!), e con il tono squillante dei presentatori di televendite annuncia:

> “Signor Giovanni, buongiorno! È ora delle terapie.”

Ecco. È in quel momento preciso che ho capito che la nottata era finita. Che la sopravvivenza non dipende solo dalle terapie o dagli esami del sangue, ma anche da un buon senso dell’umorismo… e da tappi per le orecchie certificati.

Alla prossima puntata, cari lettori. Sempre qui, dal mio letto con vista... sulla movida più surreale d’Italia.

Cronache di una notte in clinica ai Tamburi – prima puntata.

Mentre a Taranto si combatte fino all’ultimo voto, io mi batto per una causa altrettanto nobile: riuscire a dormire. Ma niente, neanche questa battaglia sembra andare in porto.

La mia posizione nel letto – rigorosamente a pancia in su, stile mummia egizia – ha ormai impresso le lenzuola in modo così dettagliato che i periti del Sacro Sudario di Torino stanno pensando a un gemellaggio con il mio lenzuolo.

E siccome la sorte ha un senso dell’umorismo tutto suo, oggi ha deciso di farmi il regalo più bello: l’esplosione dell’estate in giugno. Quell’afa appiccicosa che ti fa rimpiangere perfino il riscaldamento globale.

A rendere il tutto più suggestivo ci pensa l’ambiente. Mi trovo ricoverato in clinica nel cuore del rione Tamburi – il quartiere noto per la sua proverbiale quiete monastica. Una vera oasi di silenzio e raccoglimento. Se per silenzio intendiamo il sottofondo sonoro di tre autoradio diverse che si sfidano a colpi di neomelodici a tutto volume.

Alle 23, come da tradizione, qualcuno ha deciso di festeggiare un compleanno con una batteria di fuochi d'artificio che manco a Capodanno a Napoli. E ora, che si avvicina la mezzanotte, mi preparo spiritualmente ai fuochi di chiusura. Sarà San Qualcosa? Un fidanzamento? Un addio al celibato? Nessuno lo sa. Ai Tamburi non si festeggia per un motivo. Si festeggia e basta.

E sì, ci tengo a dirlo: sono nato proprio qui, ai Tamburi. Sarà per questo che, nonostante tutto, ci rido su. Ma se domattina mi vedete con le occhiaie di un panda insonne, sappiate che non è stanchezza. È folklore del Califfato del quartiere Tamburi.

Intervento chirurgico

Ho appena affrontato l’intervento. È andato tutto bene — o perlomeno, quanto basta per potermi permettere di tirare un bel sospiro di sollievo.
La parte più delicata è alle spalle. Ora inizia il tempo della pazienza, del riposo e della cura. Sono fiducioso, anche se affaticato. Il corpo chiede tempo, e io glielo darò.
Grazie a chi mi è stato vicino, anche solo con un pensiero. È in questi momenti che si riscopre il valore dell’umanità semplice, della vicinanza sincera, dei legami veri.
Vi aggiornerò presto. Intanto, mi affido al tempo e al coraggio silenzioso della guarigione.

📘 Diario di bordo – N°10 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°10 | Luglio 2025 “Incontri ravvicinati con la dottoressa (umana), camici volanti e supercazzole terapeuti...