domenica 8 giugno 2025

Cronache di un ricovero in clinica – Tredicesima puntata: Missione compiuta, si torna a casa.


Ore 10:40
🎺 Rullo di tamburi, squilli di tromba, partono le fanfare!
Sì, cari amici e affezionati lettori delle mie tragicomiche avventure cliniche… ce l’ho fatta!
Missione compiuta. Obiettivo raggiunto. Traguardo tagliato.
La “pipì della libertà” è finalmente stata prodotta, misurata, analizzata, accettata, e benedetta!
Posso finalmente affermarlo con orgoglio: si torna a casa.

Ma andiamo con ordine.

Ore 10:30 circa, dopo essermi svuotato più che il lago di Garda in piena estate, ho premuto con energia il tasto della campanella, con la stessa solennità con cui si suona il campanello di fine lezione a scuola.
Arriva l’infermiera, mi guarda, io le mostro il trofeo, anzi, la coppa del mondo in versione trasparente piena di liquido ambrato (ma non pensate male!).
Lei annuisce con un sorriso e dice:

> "Perfetto, ora aspettiamo solo l’ok del medico."
Applausi registrati. Pubblico in piedi.

E io, emozionato come un attore al suo debutto, mi sdraio con gli occhi al soffitto, lasciando che i pensieri si rincorrano:
“Ce l’hai fatta”, “torni a casa”, “non sentirai più il beeeeeep del saturimetro”, “niente più flebo che gocciola come un metronomo ansioso”.

Ed è proprio in quell’attimo sospeso tra realtà e sogno che…
la porta si spalanca con teatralità.
Un bagliore illumina la stanza.
E lei entra.

No, non è la Madonna (anche se per un attimo ho avuto il dubbio), non è la vincitrice di Miss Universo, è Giada.
Sì, Giada, l’angelo in carne, ossa e sorriso, con un foglio in mano che per me ha più valore della Costituzione Italiana.

> “Ecco le tue dimissioni, puoi andare. Tanti auguri!”

In quel momento il mio cuore ha fatto un salto carpiato, i miei occhi si sono velati di commozione e le mie gambe, per la prima volta dopo giorni, hanno sentito la voglia di alzarsi e danzare.
Giada ha pronunciato le parole più belle mai udite in clinica, altro che “la febbre è scesa” o “il brodo è caldo”.
Quelle parole erano musica celestiale.

E non finisce qui:
le chiedo timidamente il permesso di poterla citare nelle mie “cronache cliniche”.
Lei non solo accetta con entusiasmo, ma mi chiede l’amicizia su Facebook!
Ragazzi, io sto per uscire con la cartella clinica in una mano e una nuova amicizia nell’altra!

Ecco, è giunto il momento.
Rimetto i miei panni civili (che ormai odorano più di disinfettante che di casa), chiudo la borsa, saluto i miei compagni di stanza con un mezzo inchino da imperatore giapponese e…
mi incammino verso la libertà.

A chi ha seguito queste puntate con affetto, ironia, messaggi, cuori, like, e parole dolci:
non vi lascio, eh!
La saga continua, perché anche fuori dalle pareti della clinica ci sono cose da raccontare.
E, detto tra noi, ho ancora due o tre aneddoti che meritano la vostra attenzione.

Stay tuned, amici cari.
Il paziente è dimesso, ma il cronista non si ferma! 💙💉✍️

Cronache di un ricovero in clinica – Dodicesima puntata: L’attesa.


Ore 10:00.
Ebbene sì, cari amici delle “cronache cliniche”, siamo al gran finale.
La valigia è pronta (o meglio, la borsa con due pigiami stropicciati e il dentifricio consumato).
Lo spirito è alto, le speranze alle stelle e già immagino l’aroma del caffè di casa che mi accoglie come una nonna premurosa.
Ma – e c’è sempre un “ma” – c’è ancora un’ultima prova da superare, l’ultimo livello del videogioco chiamato "ricovero": l’urina di controllo.

Eh già.
Per poter dire “ciao clinica” e tornare finalmente nel mio focolare domestico, bisogna riempire quel benedetto contenitore. Non una goccia, non due, ma la quantità minima per essere presi sul serio dal laboratorio.

Ed è qui che casca l’asino.
Non so se è colpa dell’ansia da prestazione, o di un attaccamento quasi sentimentale alle infermiere e alle OSS che mi coccolano ogni giorno, ma il mio organismo – come dire – fa orecchie da mercante.
Ho già bevuto due bottigliette d’acqua come se fossi appena tornato dal deserto del Sahara, sto per aprire la terza, ma nel contenitore… il nulla cosmico.
O quasi.
Diciamo che è più un bicchierino da degustazione che una porzione da analisi medica.

Nel frattempo, scatta la scena da commedia all’italiana.
Faccio su e giù per la stanza come un condannato in cerca della grazia, con lo sguardo perso nel vuoto e le mani giunte in preghiera laica.
Ogni tanto, si affaccia l’infermiere con quel classico “Beh?” che in realtà significa:

> “Allora, hai fatto il tuo dovere oppure ci tocca rimandare tutto?”

Io, con lo sguardo basso e un filo di voce, rispondo:

> “Ancora poco…”

Dopo mezz’ora, cambio di attori: si presenta l’OSS. Stessa scena, stessa domanda.
E io? Stessa misera risposta.
A questo punto mi sento come quei mariti degli anni ’80, vestiti male e con i baffi storti, che camminano avanti e indietro dietro il vetro della sala parto, aspettando notizie della partoriente… solo che qui il bambino è una pipì che non vuol nascere!

Sarà la sindrome del paziente? Sarà il timore inconscio di abbandonare il nido protetto della clinica, dove ogni mattina ti chiedono come stai e ti sistemano il cuscino con amore?
Non lo so.
So solo che questo flusso bloccato è diventato metafora della vita: quando tutto sembra andare per il verso giusto, c’è sempre qualcosa che ti costringe ad aspettare.

Ma io non mollo.
La casa mi aspetta.
E anche il mio bagno, il mio caffè, le pantofole e – diciamolo – la mia privacy.

E allora sì, cari amici, oggi si combatte contro l’ultimo nemico: la vescica timida.
Ma vi prometto che ce la farò.
E se tutto va come deve, la prossima puntata sarà un inno alla libertà… dalla stanza XX! 💪💧🚽

Cronache di un ricovero in clinica – Undicesima puntata: “Pronto buongiorno… è la sveglia”

Ore 7:00.
“Pronto buongiorno… è la sveglia.”
Solo a pronunciarle queste parole, ai più nostalgici tremano le ginocchia e nella testa parte il ritornello di una vecchia canzone dei mitici Pooh. Altro che smartphone, qui la sveglia arriva in modalità analogica: porta che si spalanca, luce sparata in faccia e voce gentile (ma decisa) dell’infermiera che, con tono serafico, ci riporta nel mondo dei vivi.

Eccoci qui, dunque.
Nuovo giorno, stesso letto.
Una clinica di quartiere, un ospedale dal cuore grande, ma con i muri che trasudano di notti difficili.
La notte è passata tra due incubi principali:

1. La Nazionale italiana di calcio che si è fatta umiliare in TV (grazie ragazzi, ci avete fatto sentire come se ci avessero tolto il caffè al mattino);

2. I soliti schiamazzi notturni del quartiere, con urla, motorini e qualche canzone neomelodica in sottofondo, che nemmeno Radio Maria riuscirebbe a coprire.

E mentre sto lì, ancora stropicciandomi le palpebre e tentando di capire se sono sveglio o se sto sognando Fabio Caressa che commenta il mio ECG, ecco l’ingresso trionfale delle nostre infermiere di reparto.
Sorridenti, energiche, e con gli strumenti appesi al collo come cowgirl moderne del bene, si avvicinano a ognuno di noi come se fossimo opere d’arte da restaurare.
Pressione? Ok. Temperatura? A posto. Battito? Ancora ce l’hai.
Tutto perfetto, sembrerebbe.

Poi, arriva la notizia bomba, quella che ti fa alzare di colpo anche se non potresti:
“Se tutto va bene, dopo l’ultimo controllo… può anche essere dimesso.”

‼️ MOMENTO EPICO ‼️
Ecco, è in quel preciso istante che capisci che Dio esiste.
Non solo: è esistito, ti ascolta e ha anche le sembianze di un’infermiera col camice leggermente spiegazzato e il fonendoscopio rosa shocking.

Il cuore batte (finalmente, in modo regolare), la testa gira (ma solo per l’emozione), e il pensiero va subito a casa:

Il tuo letto.

Il tuo bagno.

Il tuo cuscino.

Il tuo Wi-Fi che prende sempre.

E la colazione con il pane vero, non quello che qui somiglia a un mattoncino Lego da mordere.

Ma non corriamo troppo.
C’è ancora una prova finale da superare: la famosa “operazione” sulla carcassa, come la chiamo io.
Nulla di grave, eh. Solo quell’ultimo passaggio tecnico che serve a confermare che sei pronto al mondo esterno.
Sì, perché qui dentro ci hanno rimesso insieme con cura, pazienza e tanta professionalità, ma là fuori il mondo è una giungla e bisogna essere preparati!

E allora, per ora stacco qui.
Vado a fare quello che mi hanno detto.
Ma con dentro un sorriso e un pensiero fisso: la voglia di tornare a casa è tanta, e questa volta, senza nemmeno passare dal via.

Incrociate le dita per me, amici.
E se tutto va bene… la prossima puntata sarà da casa mia! 🏡😉

Cronache di un ricovero in clinica – Decima puntata: “Forza Azzurri (e forza anche gli occhi)”

Ore 21:00.
Nella quiete della clinica cala il silenzio…
Un silenzio apparente, perché sta per succedere qualcosa di grosso.
Altro che somministrazione serale di ansiolitici: stasera gioca la Nazionale!

E qui in reparto, tra una flebo e una tachipirina, scatta l’operazione “Ultrà in pigiama”.
La TV – che di solito trasmette repliche di telenovelas bulgare o pubblicità di creme per le emorroidi – improvvisamente diventa sacra.
Un altare, una reliquia, una specie di San Siro a cristalli liquidi… anche se, diciamolo, è piccola quanto uno specchietto retrovisore.

Ma che importa?
Si organizza la visione con una strategia degna della NASA:
sedie spostate chirurgicamente per trovare l’angolo giusto, sguardi incrociati come quelli dei cecchini nei film, e una retina che chiede pietà, perché per distinguere un pallone da una formica ci vuole il coraggio di un falco pellegrino.

Io, con la foga da tifoso e il dolore dell'operazione ancora presente, mi siedo storto ma fiero, come chi sa che il dolore passa ma l’orgoglio azzurro resta.
Qualcuno scherza: “Speriamo che non ci facciano salire la pressione…”
Io rispondo: “Tranquillo, se vinciamo c’è già il personale pronto col misuratore.”

E poi parte la magia:
il calcio d’inizio.
Occhi puntati, cuore in gola.
La stanza si trasforma.
Non è più una camera di degenza, ma uno stadio in miniatura, con pareti color pastello e luci al neon.

Al primo tiro dell’Italia si alza il primo “OOOH!”…
e poco dopo il secondo “AAAH!” per un’occasione mancata.

Siamo un gruppo eterogeneo, ma quella maglia azzurra ci unisce tutti, proprio come una flebo condivisa.
Il bello è che non servono parole, basta un’occhiata per capire se è corner, rigore o strazio.

E anche se l’audio gracchia, e il commentatore sembra parlare da dentro una lavatrice, noi resistiamo.
Perché siamo tifosi veri.
Perché siamo italiani.
E perché, in fondo, questa partita ci fa sentire vivi, presenti, normali.
Anche se seduti in pigiama, con un cuscino dietro la schiena e il braccialetto identificativo al polso.

Questa decima puntata la dedico agli ultrà da corsia, a chi tifa con lo sguardo e con l’anima,
a chi stasera dimenticherà per novanta minuti il motivo per cui è qui dentro.

E come si dice in questi casi:
FORZA AZZURRI… e che vinca la salute!
🇮🇹⚽🛏️

Cronache di un ricovero in clinica – Nona puntata: “La cena è servita… e pure l’identità”

Ore 18:00 spaccate.
Il rito della sera ha inizio. Le ombre si allungano, la TV gracchia un po’ troppo alta dalla stanza accanto, e nel corridoio cominciano a farsi sentire i carrelli tintinnanti.
È l’ora della cena, signori e signore.
Un momento sacro, il terzo e ultimo spartiacque della giornata dopo colazione e pranzo. Il tempo qui dentro, l’ho detto e lo ripeto, non lo misuri con l’orologio ma con la posata.

Ed ecco che, come da copione, entra in scena Lei, la regina del carrello, la signora della cena, la maestra del menù personalizzato.
Con mossa elegante e tono familiare entra in stanza, distribuisce vassoi come se stesse servendo a Buckingham Palace e si ferma davanti a me.
Mi fissa.
Solleva il dito indice in modo solenne, un po’ da inquisitore medievale, un po’ da zia al pranzo di Natale, e…
“Io conosco tua moglie… e conosco pure te!”

😳
Silenzio.
Trattengo il cucchiaio sospeso a mezz’aria.
“Oddio,” esclamo io, con l’aria colpevole di chi ha appena rubato un biscotto di nascosto, “spero che non sia una brutta cosa…”
Ma lei ride: “Ma no, cosa dici! Siamo compaesani. Ti ho visto a Statte più volte.”

E lì scatta la svolta.
Mi si gonfia il petto, il cuore si allarga:
vuoi vedere che sto diventando un VIP a mia insaputa?
Un Ferragni del corridoio C? Un influencer di corsia?
Altro che ricovero… qui è tutto un reality, solo che invece dei followers ho i globuli bianchi e i valori delle analisi!

Così, sull’onda dell’entusiasmo e del riconoscimento popolare, le chiedo se posso immortalarla con una foto, per raccontare questo simpatico episodio nella mia saga clinica. Lei acconsente con la grazia di chi è abituata al successo, e io già penso alla caption su Facebook: “La signora che conosce tutti, Statte compresa!”

Ma torniamo al punto focale:
la cena.

Nel vassoio, l’apertura è con un minestrone di verdure con riso. Ora, diciamolo:
non è proprio il mio piatto del cuore.
Sarà che è troppo buono, sarà che ha troppe verdure, sarà che mi ricorda certi esperimenti scolastici delle mense anni ‘80, ma lo assaggio solo per educazione. Giusto un paio di cucchiaiate, come si fa con la zia che cucina male ma ci tiene tanto.

Poi passo al secondo:
fesa di tacchino con contorno di carote rosse.
E qui devo dire che il tacchino fa il suo lavoro, non entusiasma, non delude. È onesto, fa la sua parte.
Accompagno il tutto con l’immancabile panino mignon, che ormai è diventato più famoso del mio referto. Credo abbia più presenze in stanza di qualsiasi altro essere vivente.

A chiudere il banchetto, l’anguria.
Sorpresa! Fresca, dolce, quasi estiva, che a questo punto ci voleva come un ombrellone in corsia.

Insomma, una cena sobria, niente da chef stellati, ma neanche da denuncia.
D’altra parte, se volevo mangiare foie gras andavo da Cracco, non in una struttura sanitaria accreditata.
E va bene così.

Concludo questa nona puntata sorridendo, con lo stomaco semipieno e il cuore grato.
Perché anche oggi ho scoperto qualcosa: che a volte basta una frase gentile e un viso amico per sentirsi un po’ più a casa.

A domani, amici miei.
E ricordate: se una signora entra e dice di conoscervi…
state calmi. Potrebbe solo essere la vostra prossima fan! 😄

Cronache di un ricovero in clinica – Ottava puntata. Ore 17 – Il nuovo degente di stanza

La quiete del pomeriggio viene frantumata dal cigolio di una sedia a rotelle che varca l’ingresso della stanza come fosse un trono mobile. A bordo, un nuovo coinquilino di stanza, accompagnato da una OSS con l’entusiasmo di chi sta consegnando un premio Nobel alla convivenza civile:
“Vedrà, qui si sta benissimo. Ottima compagnia!”
Traduzione simultanea nella mia testa: “Auguri.”

L’uomo si sistema con l’aria di chi ha appena acquistato un appartamento e subito si lamenta del comodino troppo alto. Un classico. Il primo impatto, come al primo appuntamento al buio, è fondamentale. E qui siamo già al livello: “Mi aspettavo di meglio dalle foto”.

Con uno sguardo che cerca solidarietà, punto gli occhi sull’altro paziente, quello che ho soprannominato “Brontolo” la prima notte dopo l’operazione. Ora capisco che quel soprannome era forse un complimento.

Poi, ecco il colpo di scena. Il nuovo arrivato, con un balzo degno di un miracolo televisivo, si alza dalla sedia e si fionda alla finestra. La vista deve avergli rievocato tempi antichi, tipo "Romeo e Giulietta" versione parcheggio multipiano, perché comincia a chiamare i suoi parenti con una voce che pare uscita direttamente dal ventre di un contrabbasso.

“Marìààààà! Giggiiiiiì! So' qua suuuu!”

Per un attimo ho pensato che volesse annunciare la sua presenza anche al quartiere limitrofo. Nessuna risposta, ovviamente. I parenti giù per strada sembrano non sentire. E io penso: “Meno male. Qualcuno lassù ci ama.”

Poi, il baritono si volta verso di me e chiede con tono ansioso:
“Ma qui prende il telefonino?”
Vorrei rispondergli con un saggio monologo in stile TED Talk su come, nel 2025, anche i piccioni abbiano il 5G integrato nel becco. Ma mi limito a un diplomatico:
“Più o meno…”

Quando finalmente riesce a telefonare, capisco che l’unico vantaggio del suo tono di voce è che si potrebbe comunicare anche senza campo.
“SONO ARRIVATOOOOOO!!! STO NELLA STANZA XXX!!! SI! X-X-X! CON DUE SIGNORI MOLTO GENTILI!”

“Molto gentili”? Non so se ringraziarlo o cercare su Google se ci sono stanze insonorizzate.

Il tutto è successo in appena trenta minuti. Una mezz'oretta che è sembrata una miniserie in otto episodi con finale aperto.
E la notte deve ancora cominciare.

Speriamo bene.
Anzi, incrociamo le flebo.

Cronache di un ricovero in clinica – Settima puntata: “Il ritorno del pranzo da seduti”

Ore 12:30.
“Il pranzo è servito!”
A dirlo non è uno chef in smoking né un maître con guanti bianchi, ma la nostra meravigliosa inserviente, che sbuca sulla soglia della stanza come un annuncio del destino, con la mitica frase di rito:
“Chi si può alzare e chi no?”

Al che, io — con un moto d’orgoglio, una fiammella di dignità appena riaccesa e la postura di chi ha vinto almeno una battaglia — rispondo pronto:
“Io posso, finalmente ho finito l’agonia del pranzo a letto!”

Lei sorride, sincera, e con quella dolcezza che solo chi fa questo lavoro con il cuore può avere, dice:
“Benissimo, sono veramente contenta per voi.”
E no, cari lettori, queste non sono frasi di circostanza.
Per chi è qui dentro, lontano dal suo letto, dai suoi oggetti, dalle sue abitudini, ogni parola gentile è un balsamo, ogni frase sentita è una carezza che sfiora l’anima.

E ora passiamo al piatto forte del giorno: il pranzo.
Ebbene sì, siamo tornati al solido.
Dite quello che volete, ma dopo giorni di semiliquidi dal colore incerto, vedere un piatto di pasta con zucchine ha avuto lo stesso effetto di una cena stellata.
Pur non essendo un fan di questo genere di minestra (anzi, a casa mia le zucchine solitamente hanno vita breve e destino infelice), oggi ne ho mangiata metà porzione con gusto e senza fiatare.

Secondo piatto?
Stelle di pollo impanate, probabilmente al forno, con contorno di verdura cotta.
Un piatto sobrio, onesto, dignitoso, che mi ha fatto sentire, almeno per mezz’ora, un uomo riconciliato con la digestione.
Frutta: una banana.
Pane: il solito piccolo panino, sempre più piccolo, quasi simbolico, ma ormai parte integrante dell’esperienza spirituale.

E mentre gustavo il tutto, seduto (!!!) al tavolino, con una mano sulla forchetta e l’altra sul cuore, riflettevo su quanto conti il sostegno vero.
Perché i messaggi che ricevo, le chiamate, i commenti sotto i miei post… sono il termometro dell’affetto sincero.
Quello che non dipende da ruoli, da incarichi, da “posti che contano”.
Quello che resta quando non hai più nulla da dare se non la tua sincerità, la tua umanità, nuda e cruda.

Grazie. Davvero.
A voi che leggete, a voi che mi scrivete, a voi che ci siete.
Perché anche da un letto di clinica, con una banana come dessert e un lenzuolo che pizzica, ci si può sentire amati.

Alla prossima puntata,
che magari si intitolerà: “Il misterioso ritorno della camminata autonoma”… ma non corriamo troppo.

🔺️ Cronache dal (quasi) Grand Hotel San Camillo 🏨😷

Molti mi chiedono dove sto passando queste "vacanze forzate". Ebbene sì, vi scrivo dalla suite del Carlo Fiorino Hospital, che per noi nati ai Tamburi resta sempre la San Camillo: la clinica più amata da chi non voleva andarci.

Sto qui, cercando di domare il tempo che non passa mai… e già che ci sono, mi improvviso cronista di corsia. Pensieri ne ho tanti, storie ancora di più — alcune meglio lasciarle tra le lenzuola d’ospedale.

Spero di non annoiarvi… ma in caso, potete sempre cambiare reparto! 😜

venerdì 6 giugno 2025

Cronache di un ricovero in clinica – Sesta puntata: “Houston, ho lasciato il letto”.

Ore 11:10.
Entra in stanza un’infermiera. Aria decisa, passo sicuro, sorriso che sa già tutto prima ancora di chiedere.
"Bene, oggi può sedersi sul bordo del letto."
Così, con la naturalezza con cui si annuncia che c’è il sole fuori, lei mi comunica la notizia dell’anno.

Sì, amici, avete capito bene: mi hanno dato il permesso di sedermi.
Non di camminare, non di ballare il tip tap, ma di sedermi ai bordi del letto.
Una roba che fino a ieri sembrava banale quanto bere un bicchiere d’acqua, oggi è diventata l’evento più atteso dopo il cenone di Natale.

Mi raccomandano:
“Attento, non si alzi in piedi, potrebbe girarle la testa.”
E io, con fare da astronauta che deve mettere piede sulla Luna, prendo fiato e affronto la sfida.

Ma prima… eh già, prima c’è il momento della vestizione.

Chiedo timidamente se può porgermi l’intimo dal comodino. Lei, dolce e professionale, si offre di aiutarmi.
Ma no!
La mia testardaggine (che ormai ha un nome proprio) si ribella, e con un misto di orgoglio, goffaggine e un pizzico di vergogna, declino l’aiuto.
E allora via, parte la scena da circo, una sorta di acrobatica lotta corpo a corpo con mutanda e gravità, il tutto condito da smorfie di sforzo, sospiri degni di un montaggio alla Rocky Balboa, e quel pensiero costante:
“Ma chi me lo fa fare?”

Alla fine, sudato come dopo una maratona immaginaria e con la schiena che urla vendetta, ce la faccio.
Pronto. Rifornito. Intimato.
È il momento.

1… 2… e 3!
Mi sollevo.
Mi siedo.
In equilibrio precario, con i piedi che sfiorano il pavimento e la schiena che chiede pietà… ma seduto.
Finalmente.

È successo.
Dopo giorni in posizione supina come un bradipo con la cervicale, mi sono sollevato.
È poco, lo so. Ma per chi sta in ospedale, ogni gesto è una conquista. Ogni passo (anche se solo mentale) è un viaggio.

E così, seduto sul mio trono instabile, guardo la stanza con occhi diversi.
Sento l’aria diversa, quasi più leggera.
È un piccolo ritorno alla vita. Un passo incerto verso la normalità.

“Un piccolo passo per l’uomo, un grande evento per il ricoverato.”

Alla prossima puntata, sempre qui dal fronte, dove il bordo del letto è la nuova frontiera dell’esplorazione umana.

🔴 Cronache di un ricovero in clinica – Quinta puntata: “Gli angeli con la maglietta celeste”.

“L’inserviente vien di notte con le scarpe tutte rotte…”
Eh no, questa è la Befana. Qui invece sono le 10 del mattino, l’orologio biologico è tarato sul post-colazione e pre-visita medica, e fa il suo ingresso il team più sottovalutato della sanità: gli inservienti.

Sì, loro. I mitici, i silenziosi, i custodi del pulito.
Non portano stetoscopi al collo né camici bianchi al vento, non prescrivono terapie né misurano pressioni, ma credetemi: senza di loro, altro che degenza… si sprofonderebbe nel caos e nella muffa emotiva.

Entrano con discrezione, scarpe silenziose, sguardo attento, gesto preciso.
Hanno il potere quasi mistico di spazzare via polvere, germi e un po’ anche il malumore, mentre con uno spruzzo di disinfettante rendono l’aria più respirabile (anche se con quel profumo da alcool etilico in stile "sambuca scaduta", ma fa parte del gioco).

Il letto, dopo il loro passaggio, sembra uscito da una pubblicità di ammorbidente. Il pavimento, che fino a un minuto prima ti sembrava “tollerabile”, diventa impeccabile, e ti accorgi che la tua stanza è più pulita della tua stessa casa.
“Ma com’è possibile? A casa mia il bagno non brilla così nemmeno dopo due ore con Vetril e bestemmie.”

Con le loro magliette celesti, sono un po’ ninja, un po’ samurai del mocio, e con quella gentilezza tipica di chi sa che ogni gesto conta, riescono a non disturbare nemmeno quando ti girano attorno con la scopa mentre tu tenti di ricordare in che giorno siamo.

A loro va il mio inchino e la mia gratitudine sincera.
Perché non è solo questione di pulizia: è che ci fanno sentire in un posto degno, curato, rispettato.
E quando sei in pigiama da tre giorni e la tua autostima giace sotto il letto, fidati, avere una stanza pulita ti rimette al mondo.

Grazie, angeli del pulito.
Grazie, custodi silenziosi delle corsie.
Grazie per ogni spruzzo, ogni spazzata e ogni sorriso accennato mentre passate al prossimo letto.

Ci vediamo domattina, stessa ora, stesso spruzzo.
E magari, stavolta, cerco di non farvi inciampare nel carrello della flebo.

Alla prossima puntata, amici.
Dal fronte lucido e profumato della clinica, è tutto.

Cronache di un ricovero in clinica – Quarta puntata: “L’ora della colazione”.

Ore 8:00. Il silenzio è rotto da un tintinnio lieve, quasi aristocratico. Arriva lei, la colazione, il primo dei tre momenti cardine che scandiscono la giornata del ricoverato.
Dimenticate orologi, calendari e app di mindfulness: qui il tempo si misura in pasti.
Che ore sono?
“Tra colazione e pranzo.”
Oppure:
“Dopo cena ma prima della pressione.”

Ed eccoci, dunque, all’appuntamento con il vassoio sacro. Io, che a casa bevo solo un espresso nero, crudo, con una bustina di zucchero di canna (perchè è più salutare??), e senza pietà, preparato dalla mia eroica macchinetta a cialde (che ormai considero più affidabile di certi medici di base), in clinica mi sono scoperto amante del tè slogan latte.

Sì, l’ho chiamato così perché non so bene come si chiami: è un tè, ma c’ha del latte dentro, ma non è un cappuccino e non è nemmeno un tè al latte all’inglese. È… tè slogan latte.
Un nome che fa chic e nasconde un cuore tiepido e vagamente insapore. Ma in questo contesto suona come un tocco british, quasi un atto di ribellione con il mignolo alzato.
“Altro che espresso. Da oggi sono un gentleman!”

L’accompagnano dei biscottini dal sapore rassicurante, buoni nella loro semplicità, e che – attenzione – non avrei mai mangiato a casa, ma qui assumono un valore quasi esistenziale.
È la sindrome da “minima cosa – massimo significato”.

Nel vassoio troneggiano la marmellatina e le fette biscottate. Io le guardo, le studio…
E poi con una strategia degna di una partita a scacchi con Kasparov, le metto da parte. Non si sa mai: verso le 10:17 potrei avere un languorino, e voglio essere pronto.
Perché, si sa: in clinica, chi ha la marmellatina in tasca ha un tesoro.

Ora, cari lettori affezionati, vi devo fare una confessione delicata.
Il motivo per cui mi tengo leggero a colazione non è solo il poco appetito, e nemmeno la malinconia del caffè casalingo... ma è la presenza inquietante della “pala”.

Sì, LA PALA.
Chi è stato ricoverato lo sa.
Chi non lo è mai stato, pensi a qualcosa tra l’attrezzo di tortura medievale e la vendetta postmoderna della società contro chi ha ancora un po’ di dignità.

Non vi preoccupate, non ve ne parlerò oggi.
La “pala” merita un capitolo a parte. Un romanzo, forse. O una tragedia greca.
Devo trovare le parole giuste, quelle che non urtino la sensibilità di nessuno… ma che vi facciano comunque capire che certe esperienze lasciano il segno. E non sempre metaforico.

Per ora, chiudo qui.
Con il tè slogan latte in mano e il pensiero che anche oggi, il vero lusso… è una digestione tranquilla.

Alla prossima puntata.
Sempre dal letto n. 110 del reparto, dove la vita scorre a biscotti e ironia.

Cronache di un ricovero in clinica – Terza puntata: “L’abbraccio di Morfeo e il risveglio militare”.

Dopo due notti insonni, spese tra cori da stadio, letti che scricchiolano come relitti e colleghi di stanza che sembrano avere un abbonamento al lamento notturno, e la prima passata a casa prima del ricovero, ieri sera sono crollato come un sasso.
Altro che sonno ristoratore: è stato un blackout sensoriale, una resa incondizionata del corpo e della mente. Morfeo, quel vecchio spacciatore di sogni, mi ha preso in braccio come una madre col figlio stanco e mi ha cullato in un sonno profondo, nero come il caffè alle 4 del mattino.

Poi… Bang!

Ore 6:30. Luci sparate in faccia come nei film americani quando la CIA interroga i sospetti. Entra lei: l’infermiera-caporal-maggiore, una donna dal sorriso smagliante ma con lo sguardo di chi potrebbe metterti in riga con un cenno del mento.
“Buongiorno! È l’ora della terapia!”
Boom. Sveglia dritto nel cervelletto. Mi alzo di soprassalto, gli occhi appannati, la bocca asciutta, il cervello ancora a zonzo nei meandri del sogno. Per un attimo ho pensato:

> “Sono morto? È questo il Paradiso? O un campo di addestramento?”

Poi la realtà si riforma, pezzo dopo pezzo: il soffitto bianco, il bip dei macchinari, l’odore di disinfettante... Ah, giusto: sono ancora in clinica.

Ma niente paura, si ricomincia. Il tempo di ritrovare la dignità sotto il lenzuolo stropicciato ed è già spettacolo nel letto accanto: il compagno di stanza, novello protagonista di un’operazione di logistica umana, telefona freneticamente ai suoi familiari di Brindisi per essere prelevato.
“Sto uscendo! Sbrigatevi! No, non c'è bisogno della giacca… no, la busta col cambio l’ho lasciata nell'armadietto della clinica…”
È in quel momento che realizzi una cosa: siamo come pacchi postali, spediti, accettati, ricoverati, dimessi. Con l’unica differenza che i pacchi Amazon almeno arrivano in orario.

E adesso? Ora si attende la OSS, figura mitologica metà infermiera metà madre Teresa, che con fare gentile varcherà la soglia chiedendo:

> “Chi vuole essere lavato per primo?”

Ecco. Oggi, forse, abbasserò lo sguardo, la voce sarà flebile ma sincera, e con una timidezza infantile dirò:

> “Sì… grazie.”

Perché qui, in clinica, l’umiltà si impara in ciabatte, con il pigiama a righe e un cuore che ogni tanto ha solo bisogno di essere curato — non solo con farmaci, ma con un gesto umano.

Alla prossima puntata, da questo piccolo grande universo parallelo chiamato reparto.

OSS

Questa mattina una OSS è entrata in camera e, con grande delicatezza, mi ha chiesto se volevo essere lavato. Non potendomi muovere dal letto, ho ringraziato ma ho declinato.
Una lacrima mi è scesa sul viso.
Non era solo per l'imbarazzo, ma per quella sottile ferita che si apre quando ci si sente fragili, quando la dignità si scontra con il bisogno.
Un grazie sincero a chi ogni giorno si prende cura, con rispetto e umanità, anche di ciò che non si vede: la nostra anima. ❤️

Cronache di un ricovero in clinica – Seconda puntata: “Notte brava ai Tamburi”

È ufficiale: se esiste una forma alternativa di movida, più creativa e anarchica della notte romana degli anni ’60, questa si svolge nel cuore pulsante del rione Tamburi. Altro che Ibiza.

Ore 23,45: luci basse, campanello d’allarme del vicino che ha premuto il tasto "Aiuto" per sbaglio (o forse per noia). Ore 00: il letto cigola come se ci fosse un’orchestra di grilli sotto al materasso. Ore 1: l’infermiera entra in punta di piedi… con gli zoccoli da guerra.
Ma il clou, cari lettori affezionati delle mie Cronache di un ricovero in clinica, arriva alle 4 del mattino.

Immaginate: la finestra con un piccolo spiraglio aperta per cercare un alito di vento, un’illusione di frescura, e all’improvviso… un coro da stadio. Non sto scherzando. Un manipolo di ragazzini dodicenni intonava con la passione di una curva sud in trasferta l’inno della loro squadra del cuore.

“Chi non salta bianconero è!”, gridavano con l’entusiasmo di chi ignora il significato profondo della parola "decibel".

Io, a quel punto, mi sono voltato verso il mio coinquilino di stanza — che chiameremo "Gemito Notturno", per la sua abitudine di lamentarsi a cadenza regolare ogni 8 minuti — e gli ho sussurrato:

> “Senti anche tu il derby?”
Lui ha risposto con un mugugno che, nella mia mente stanca, ho interpretato come:
“Stanno vincendo ai rigori.”

Il tempo di metabolizzare il mini-concerto che sono arrivate le infermieri ninja. Perché sì, di giorno sono dolci e professionali, ma di notte si trasformano in creature mistiche capaci di aprire porte senza toccarle, camminare senza lasciare impronte… salvo poi sbadigliare in stereo davanti al distributore del caffè.

Alle 6:30, il rito si compie. L’infermiera del turno del mattino entra con l’aria di chi ha dormito bene — e questo, già di per sé, è un affronto —, apre la finestra (finalmente!), e con il tono squillante dei presentatori di televendite annuncia:

> “Signor Giovanni, buongiorno! È ora delle terapie.”

Ecco. È in quel momento preciso che ho capito che la nottata era finita. Che la sopravvivenza non dipende solo dalle terapie o dagli esami del sangue, ma anche da un buon senso dell’umorismo… e da tappi per le orecchie certificati.

Alla prossima puntata, cari lettori. Sempre qui, dal mio letto con vista... sulla movida più surreale d’Italia.

Cronache di una notte in clinica ai Tamburi – prima puntata.

Mentre a Taranto si combatte fino all’ultimo voto, io mi batto per una causa altrettanto nobile: riuscire a dormire. Ma niente, neanche questa battaglia sembra andare in porto.

La mia posizione nel letto – rigorosamente a pancia in su, stile mummia egizia – ha ormai impresso le lenzuola in modo così dettagliato che i periti del Sacro Sudario di Torino stanno pensando a un gemellaggio con il mio lenzuolo.

E siccome la sorte ha un senso dell’umorismo tutto suo, oggi ha deciso di farmi il regalo più bello: l’esplosione dell’estate in giugno. Quell’afa appiccicosa che ti fa rimpiangere perfino il riscaldamento globale.

A rendere il tutto più suggestivo ci pensa l’ambiente. Mi trovo ricoverato in clinica nel cuore del rione Tamburi – il quartiere noto per la sua proverbiale quiete monastica. Una vera oasi di silenzio e raccoglimento. Se per silenzio intendiamo il sottofondo sonoro di tre autoradio diverse che si sfidano a colpi di neomelodici a tutto volume.

Alle 23, come da tradizione, qualcuno ha deciso di festeggiare un compleanno con una batteria di fuochi d'artificio che manco a Capodanno a Napoli. E ora, che si avvicina la mezzanotte, mi preparo spiritualmente ai fuochi di chiusura. Sarà San Qualcosa? Un fidanzamento? Un addio al celibato? Nessuno lo sa. Ai Tamburi non si festeggia per un motivo. Si festeggia e basta.

E sì, ci tengo a dirlo: sono nato proprio qui, ai Tamburi. Sarà per questo che, nonostante tutto, ci rido su. Ma se domattina mi vedete con le occhiaie di un panda insonne, sappiate che non è stanchezza. È folklore del Califfato del quartiere Tamburi.

Intervento chirurgico

Ho appena affrontato l’intervento. È andato tutto bene — o perlomeno, quanto basta per potermi permettere di tirare un bel sospiro di sollievo.
La parte più delicata è alle spalle. Ora inizia il tempo della pazienza, del riposo e della cura. Sono fiducioso, anche se affaticato. Il corpo chiede tempo, e io glielo darò.
Grazie a chi mi è stato vicino, anche solo con un pensiero. È in questi momenti che si riscopre il valore dell’umanità semplice, della vicinanza sincera, dei legami veri.
Vi aggiornerò presto. Intanto, mi affido al tempo e al coraggio silenzioso della guarigione.

sabato 10 maggio 2025

1979 – L’anno che cambiò il ritmo della storia.

C’è un anno che pulsa ancora nei ricordi di chi l’ha vissuto. Un anno che ha lasciato il segno tra rivoluzioni, speranze, paure e canzoni indimenticabili: il 1979.

È stato l’anno in cui il mondo sembrava sul crinale tra due epoche. In Italia, il sangue di Guido Rossa macchiava la coscienza del paese e diventava simbolo di coraggio e giustizia nel cuore buio degli anni di piombo. Il terrorismo mordeva ancora, ma si faceva strada anche una nuova consapevolezza collettiva. La gente scendeva in piazza, si organizzava, cercava risposte. La politica era discussione quotidiana, nei bar, nei circoli, nelle case. Era l’anno in cui la sinistra e il sindacato si interrogavano sul presente e sul futuro di un’Italia in transizione.

Nel mondo, Margaret Thatcher saliva al potere nel Regno Unito, segnando l’inizio di un’era politica che avrebbe cambiato l’Europa. In Iran esplodeva la rivoluzione islamica, e in Afghanistan cominciava l’invasione sovietica. L’equilibrio mondiale tremava.

Eppure, tra i notiziari e le lotte, a fare da colonna sonora c’era lei: la musica.

Il 1979 fu un’esplosione di note che ancora oggi fanno vibrare l’anima. Nelle radio si alternavano voci internazionali come Gloria Gaynor con “I Will Survive” – un inno alla resistenza personale e collettiva – e i Buggles con “Video Killed the Radio Star”, che anticipavano il futuro dell’immagine. I Queen incantavano con “Don’t Stop Me Now”, mentre Michael Jackson cominciava a diventare leggenda.

In Italia, la musica era poesia sociale. “Nuntereggae più” di Rino Gaetano sparava ironia come proiettili, “Anna e Marco” di Lucio Dalla raccontava la malinconia e i sogni di provincia, “Buona Domenica” di Venditti parlava di gioventù, libertà e amicizie senza tempo. Canzoni che non invecchiano mai.

Il 1979 era jeans a zampa, capelli lunghi, motorini rombanti, lotte studentesche, balli sfrenati sotto luci colorate, vinili graffiati dal tempo e dal cuore. Era un’Italia giovane, agitata, viva. Un’Italia che cercava se stessa.

Oggi, mentre la memoria si fa spesso veloce e superficiale, è importante rispolverare quell’anno. Perché il 1979 ci ha insegnato che anche nel buio si può ballare. Che anche nella confusione si può credere. E che ogni generazione ha bisogno delle sue canzoni per non dimenticare chi è.

“Gli anni ’60: la colonna sonora della nostra staffetta generazionale”.

C’è un momento in cui la musica smette di essere solo melodia… e diventa identità. Gli anni ’60 sono stati quel momento.

Erano gli anni del sogno, della ribellione, dei primi baci dietro l’edicola e delle radioline a transistor sotto il cuscino. Anni in cui i Baby Boomers cominciavano a prendere per mano la società, preparando inconsapevolmente il testimone da passare a quella che poi sarà chiamata Generazione X.
Una staffetta fatta di dischi, idee, rivoluzioni culturali, ma soprattutto di canzoni.

▫️“Stand by Me” – Ben E. King (1961)
Una preghiera laica di resistenza e amore. Ogni volta che la sentiamo, qualcosa dentro si raddrizza. “When the night has come…” e il mondo intorno svanisce. Restano solo i legami veri, quelli che resistono.

▫️“Be My Baby” – The Ronettes (1963)
Il battito del cuore in 4/4. Una richiesta d’amore eterna, una voce femminile potente e sognante. È l’America della spensieratezza ma anche delle prime consapevolezze. La dolcezza che ti prende per mano mentre scopri il mondo.

▫️“I Want to Hold Your Hand” – The Beatles (1963)
Un’esplosione di gioia adolescenziale. I Beatles erano un terremoto. I ragazzi con lo sguardo verso il futuro, si lasciavamo travolgere. Tenersi per mano, allora, era già una rivoluzione.

▫️“(I Can't Get No) Satisfaction” – The Rolling Stones (1965)
La voce del disagio, del “non ci sto”, dell’inquietudine di chi sente che la realtà non basta più. Quel riff di chitarra è diventato il loro grido. Per molti, è iniziata lì la lunga strada verso l’impegno.

▫️“Hey Jude” – The Beatles (1968)
Un abbraccio in musica, un invito a non lasciarsi andare. “Take a sad song and make it better”... la frase che ancora oggi dovremmo insegnare ai giovani. È qui che la staffetta generazionale diventa eredità morale.

Gli anni ’60 non sono stati solo un’epoca: sono un ponte.
Tra chi sognava un mondo nuovo e chi oggi ne cerca ancora il senso.
Una generazione non è mai davvero finita, se la sua musica continua a parlare.

Le generazioni e i loro tempi: un viaggio tra esperienze, sogni e realtà.

Ogni generazione ha il suo tempo, i suoi sogni, le sue lotte e i suoi strumenti. E comprenderle non è solo un esercizio culturale: è un atto di rispetto, una chiave per dialogare meglio e costruire insieme un futuro condiviso.

▪️I Baby Boomers (1946-1964) sono i figli della ricostruzione e della speranza. Hanno conosciuto l’Italia che usciva dalla guerra, le lotte sindacali, le conquiste dei diritti, il boom economico. Molti hanno lavorato duro, spesso mettendo al centro la famiglia e la sicurezza del posto fisso. Sono la generazione che ha "costruito" e a cui oggi spesso chiediamo di "lasciare spazio".

▪️La Generazione X (1965-1980) è cresciuta in un mondo che cambiava pelle: la fine delle ideologie forti, l’inizio del precariato, le prime crisi industriali. Sono i genitori dei Millennials, i pontefici tra analogico e digitale. A loro si deve spesso il passaggio dalla fabbrica al computer, dalla militanza al disincanto.

▪️I Millennials o Generazione Y (1981-1996) sono quelli che hanno visto nascere internet e poi i social. Molti hanno studiato, fatto esperienze all’estero, ma si sono scontrati con un mondo del lavoro sempre più instabile. Portano in sé una tensione continua tra aspettative e realtà. Cercano senso, più che status. Sono spesso vittime del “ritardo sociale” (casa, figli, stabilità), non per scelta, ma per necessità.

▪️La Generazione Z (1997-2012) è nata digitale, cresciuta con smartphone in mano e identità fluide. È la generazione delle cause globali: clima, diritti, identità. Ma anche quella più fragile sul piano emotivo. Comunica in modi nuovi, rapidi, visivi. A volte ci appaiono distanti, ma forse sono solo molto più veloci di noi.

▪️Gli Alpha (2013-2024), i cosiddetti screenagers, sono i bambini di oggi, immersi fin da piccoli in uno schermo. Chi li educa ha la responsabilità immensa di guidarli in un mondo iperconnesso, dove però il contatto umano rischia di perdersi. Toccherà a noi adulti seminare per loro esempi di empatia, di attenzione, di rispetto per il pianeta e per gli altri.

▪️E poi ci sarà la Generazione Beta (2025-2039). Non sappiamo ancora chi saranno, ma possiamo immaginare che saranno il frutto delle scelte che facciamo oggi. Se trasmettiamo loro il valore della comunità, del bene comune, della lentezza che serve per capire… forse costruiremo un mondo migliore.

Perché ogni generazione ha i suoi strumenti, ma i valori fondamentali – solidarietà, dignità, giustizia – vanno trasmessi.

E allora impariamo a parlarci, senza giudicarci. Baby Boomers e Zeta, X e Alpha: c'è bisogno di dialogo, di ascolto, di ponti.

Il futuro è una staffetta, non una gara.

giovedì 10 aprile 2025

"La naja": un pezzo di vita, tra cameratismo, sacrifici e scoperte.

Stamattina, mentre ero in auto, immerso nei miei pensieri, la radio ha iniziato a suonare Generale di Francesco De Gregori. Una canzone che non ascoltavo da un po', ma che ogni volta mi scava dentro. Ed è stato proprio in quel momento, mentre guidavo in silenzio e le parole di De Gregori scorrevano tra un ricordo e l’altro, che mi è tornato in mente cosa ha significato per tanti ragazzi, in quegli anni, la leva obbligatoria. Così nasce questo post. Da una suggestione. Da un’emozione. Dal desiderio di fissare su carta – o meglio, sui social – una memoria collettiva.

Per chi è nato tra gli anni ’50 e ’80, la “naia” è stata molto più di un dovere civile: è stata una tappa obbligata della vita, un salto nel vuoto che molti affrontavano a denti stretti. Ricevere la cartolina precetto era un colpo al cuore: ti cambiava i piani, ti sradicava dalla tua quotidianità, ti spediva lontano, spesso dall’altra parte dell’Italia.

C’era chi partiva piangendo, chi facendo lo spavaldo, chi semplicemente rassegnato. Ma dietro ogni zaino c’era un giovane con mille domande e poche certezze. Le prime settimane erano durissime: sveglie all’alba, urla, divisa, marce, regole incomprensibili, gerarchie ferree. Ma con il passare del tempo, quella caserma diventava una piccola patria, fatta di camerati che condividevano tutto: dalle fatiche ai sorrisi.

Si facevano amicizie che duravano anni, si scoprivano dialetti, abitudini, mondi diversi. Ragazzi del Sud mandati al Nord, e viceversa. Tutti insieme, sotto la stessa coperta ruvida, con lo stesso piatto di rancio davanti. In mezzo a tutto questo, si cresceva. A volte anche in fretta, spesso senza accorgersene.

Ma non era tutto rose e fiori. C’erano anche lati oscuri: il nonnismo, la noia, il disagio di chi non accettava quell’ambiente. Ed è anche da queste esperienze che è nato, negli anni ’90, il movimento degli obiettori di coscienza e il servizio civile come alternativa.

Eppure, ancora oggi, per chi l’ha vissuta, la leva è una parentesi che non si dimentica. Un’esperienza che ti porti dentro, nel bene e nel male. Una scuola di vita, per molti. Per altri, una ferita. Ma per tutti, un passaggio.

Poi è arrivato il 2005, e con la sospensione della leva obbligatoria si è chiuso un capitolo della nostra storia. Da allora siamo cambiati. Siamo diventati più liberi, forse. Ma anche più soli.

Oggi, nell’auto, mentre De Gregori cantava la malinconia di una giovinezza andata, ho capito che era giusto ricordare. Per chi c’era, per chi non c’è più. Perché anche la naja, in fondo, è stata Italia. Una parte vera, ruvida e intensa della nostra vita.

📘 Diario di bordo – N°10 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°10 | Luglio 2025 “Incontri ravvicinati con la dottoressa (umana), camici volanti e supercazzole terapeuti...