mercoledì 9 luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°10 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°10 | Luglio 2025

“Incontri ravvicinati con la dottoressa (umana), camici volanti e supercazzole terapeutiche.”

Allora, amici miei… ieri è stata “la giornata della conoscenza”.
No, non sono andato in pellegrinaggio da Alberto Angela, ma finalmente ho conosciuto colei che avrà il coraggioso compito di curare settimanalmente il mio "problemino" (che tanto ino non è, ma fa fine dirlo così).
E vi dico subito: donna simpatica, cordiale, empatica, esaustiva… in una parola: umana.
Praticamente l’antitesi vivente del vasetto di yogurt scaduto lasciato sotto il sole, alias il dottore che mi ha mandato l’esito istologico via WhatsApp all’alba come se fosse l’offerta del giorno su Amazon Prime.

Ma andiamo con ordine, come si dice nelle migliori cronache giudiziarie.

La notte prima dell’incontro, non ho chiuso occhio.
Sarà stata la tensione, sarà stata la testa che frullava peggio di un frullatore senza coperchio, sarà stato il classico effetto ansia pre-visita… fatto sta che se ho dormito due ore, è un miracolo degno di Lourdes.

Alle 11:00 ero già pronto. Alle 12:00 l’appuntamento.
Un’ora di anticipo, perché da bravo ex lavoratore puntualissimo se arrivo solo in orario, mi sento in ritardo.
In testa ho una lista mentale di domande che nemmeno Mentana nel suo Tg delle 20.

Arrivo nel reparto, cerco di individuare la famosa “dottoressa X” tra una miriade di camici bianchi che sfrecciano avanti e indietro come astronavi nell’iperspazio.
Intanto, intravedo delle stanzette: due lettini, un lavandino, e fuori seduti alcuni pazienti...
Mi viene il dubbio:
“Ma vuoi vedere che queste sono le famigerate stanze della tortura?"
Ops, volevo dire: “della cura”? 😅

Poi, come nelle migliori scene da film, compare lei: camice bianco, biondina, minuta, con un accenno di sorriso che vale più di mille parole.
Mi fiondo su di lei come un fan su una rockstar e chiedo:
“Lei è la dottoressa X?”
E lei, con calma olimpica:
“Sì, sono io.”

A quel punto, presentazioni, stretta di mano e… via, nello studio.
Con voce un po’ incrinata ma dignitosa, le spiego tutto il malloppone della mia storia clinica che avevo diligentemente preparato, manco dovessi sostenere la tesi di laurea.
Lei mi ascolta. Davvero.
Mi guarda negli occhi. Davvero.
E risponde con chiarezza, empatia, competenza.
In dieci minuti, riesce a farmi capire più lei che l’urologo in dieci settimane.
(Non è che ci volesse molto, eh. Ma lasciatemi esagerare).

E così, ecco il verdetto:
👉 Dal 24 luglio si parte.
👉 Il percorso sarà un po’ tosto.
👉 I cicli non saranno caramelle balsamiche.
Ma io stringerò i denti e andrò avanti.
Perché se non vi ammorbo io con le mie sventure tragicomiche… chi lo fa? 😜

E se qualcuno si stufa, beh, può sempre:
✅ bypassare i miei scritti,
✅ silenziarmi educatamente,
✅ o nella peggiore delle ipotesi, bloccarmi su Facebook e vivere felice.

Ma io, modestamente, vi lascio con una scena che nemmeno “Amici Miei” avrebbe osato scrivere:

> “Mi raccomando, dottoressa, quando cominceremo la terapia faccia attenzione a non interrompere l’azione del ciclo mediante una rotazione delle fiale con la disinvoltura della supercazzola prematurata, perché se la trombositocitosi interagisce col radicale libero del doppio saluto, la biondina rischia l’effetto zingarata, e lì ci vuole un dosaggio di spirito d’iniziativa con contorno di ottimismo e mezza flebo di ironia, sennò mi si scompone l’animo come una carbonara col parmigiano!”

E adesso vi lascio con un pensiero dedicato a tutti quelli come me, che stanno affrontando o stanno per affrontare un ciclo di chemioterapia… e anche a chi gli sta accanto, quei santi laici chiamati amici, figli, mogli, parenti, vicini di poltrona e di cuore.

Ricordatevi sempre una cosa:
questa non è una guerra, perché la guerra è brutta e fa schifo.
Questa è una sfida. Una scalata. Una corsa a ostacoli.
E sì, ogni tanto inciampiamo, ci scappano le lacrime, il nervosismo, le notti insonni…
Ma poi ci si rialza.
Con stile, col sorriso e – se possibile – anche con una bella battuta pronta.

A chi comincia ora dico: non temere.
Sarai più forte di quanto immagini, e quando crederai di aver finito la benzina…
scoprirai che vai avanti a risate, carezze e spruzzate di ironia.

A chi ci accompagna dico:
abbracciate forte, anche solo con lo sguardo.
Non dite “tutto andrà bene”, ma piuttosto “sono qui”.
E ogni tanto, offriteci un gelato o un meme cretino: valgono quanto una flebo di allegria.

E se proprio non sapete cosa fare…
mettete un camice, fingete di essere infermieri e portateci il caffè.
Male non fa, e almeno per un momento, ci sentiremo meno pazienti e più umani.

Dunque avanti tutta.
A testa alta, stomaco forte e cuore leggero.
Che poi, come diceva il saggio (forse uno zio ubriaco):

> "La chemio è come una partita a scacchi con la vita: ogni tanto perdi un pezzo… ma se tieni duro, fai scacco matto col sorriso!"

Alla prossima, con la solita ironia, qualche globulo bianco in più e la voglia matta di rompere le scatole.

sabato 5 luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°9 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°9 | Luglio 2025

“Incontri ravvicinati del terzo tipo… con l’urologo.”

Stamattina, alla buon’ora, incrociando le dita (non per cambiare l’esito dell’istologico – quello era già arrivato in anteprima esclusiva su WhatsApp con tanto di emoji mancata – ma solo per una piccola speranza), speravo che il medico che mi ha operato il 4 giugno si fosse svegliato col piede giusto.
Perché diciamocelo chiaramente: più che un medico, a volte sembra un vasetto di yogurt scaduto, dimenticato da mesi sotto il sole d’agosto su un muretto di Statte.
E attenzione: non metto in discussione la sua professionalità, che anzi, è indiscutibile.
Ma il carattere... ecco, quello sì. Difficile da digerire, come un panzerotto fritto alle sei del mattino.

Arrivo nel suo studio. Attendo il mio turno con l’agitazione di chi sta per fare l’esame di maturità, ma senza la colonna sonora di sottofondo.
Finalmente mi riceve.
E prima ancora che possa dire “si accomodi”, gli sparo subito:
“Pugliese. Dottore, sono Giovanni Pugliese, operato il 4 giugno. Quello del referto su WhatsApp.”

A quel punto lui si ricorda (o finge bene) e parte a scrivere come se stesse compilando una letterina a Babbo Natale, indirizzata però al medico oncologo che dovrà prendersi cura del mio futuro.
Scrive, scrive, firma, piega e consegna.
Dieci minuti. Tempo record.
Più che una visita medica sembrava il ritiro di una raccomandata in posta: “Ecco qui il suo pacco, firmi qui, buona giornata e in bocca al lupo.”
Che dire, l’efficienza è una virtù, ma quando parliamo di corpi, paure, speranze e umanità… magari qualche minuto in più non guasterebbe, dottò!

Riassunto della puntata?
📍 Ho le indicazioni per affrontare l’estate a colpi di terapie e appuntamenti.
📍 Tra tre mesi circa, si torna in clinica.
📍 Altra operazione, altro prelievo, altra analisi.
Insomma: il tour continua. Non è esattamente quello di Vasco, ma siamo lì… solo che qui i biglietti non li paghi in euro, ma in pazienza e coraggio.

E mentre vi scrivo, sospiro.
Profondamente.
Non per commuovermi, ma per dare fiato a quella vocina dentro di me che ogni tanto sussurra:
“Ma perché proprio io?”
E a cui io rispondo, ogni volta:
“Perché chi se non io? Chi ha più ironia, testardaggine e voglia di prenderla con un sorriso amaro se non questo testone pugliese?”

Mi prendo in giro, sì.
Perché se non rido io, chi lo fa?
E perché ridere, anche nel mezzo del buio, è la mia forma preferita di resistenza.

venerdì 4 luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°8 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°8 | Luglio 2025

“Tra buche, cerini e promesse: diario semiserio di un cittadino che non si arrende.”

Quando ti ritrovi ad affrontare un problema di salute – e parlo ancora dalle fasi iniziali, quindi il bello (si fa per dire) deve ancora venire – succede qualcosa di particolare.
Ti si apre un mondo.
Un mondo popolato da tante, troppe persone che vivono situazioni simili alla tua, spesso in silenzio, spesso con dignità, sempre con una dose di forza che fa tremare le ginocchia.

Qualcuno potrebbe dire:
“Eh, vabbè, magra consolazione sapere di non essere soli…”
E avete anche ragione.
Non è una consolazione.
È un dato di fatto, crudo e nudo.
Ma proprio per questo, lo prendo come un motivo in più per dire a tutti voi: fate controlli, prevenite, non aspettate che il motore vada in avaria.

Perché, vedete, la differenza tra noi e tanti altri è come quella tra chi viaggia su un’auto in autostrada fresca d’asfalto, e chi – come noi – cerca di schivare buche, crateri e tombini ribelli nelle strade del Sud.
Ora ditemi: secondo voi chi ha bisogno di fare manutenzione prima?
Chi viaggia sul velluto o chi guida tra le scosse sismiche dell’asfalto urbano?

Già, benvenuti nel nostro meridione, terra bellissima e sgangherata, dove anche il corpo umano, per sopravvivere, deve fare l’equilibrista tra smog, veleni e speranza.

In questi giorni, intanto, va in scena l’ennesimo teatrino istituzionale.
Una vera "querelle all’italiana", con lo Stato da una parte e gli enti locali dall’altra, che si passano un cerino acceso come se fosse una patata bollente.
Quel cerino si chiama ex ILVA – sì, proprio quella – la “fabbrica dei veleni”, la multinazionale del disastro ambientale.

E io lo dico con il cuore:
dello Stato non possiamo più fidarci, perché ci ha condannati da tempo.
Ma almeno dei nostri sindaci, quelli che dovrebbero rappresentare la comunità e difendere la salute pubblica, vorrei fidarmi ancora.

A voi, cari sindaci, non chiedo miracoli.
Chiedo coerenza. Coraggio. Onestà. E una cosa che sembra piccola ma è enorme: ascolto.
Non ascoltate solo gli amici di partito, i consulenti di fiducia o gli esperti delle mezze verità.
Ascoltate i cittadini, le associazioni, chi da anni studia, denuncia, propone.
E soprattutto, ricordatevi cosa dicevate in campagna elettorale quando promettevate partecipazione, trasparenza, ascolto.
Sì, proprio voi, quelli del "ascolteremo tutti", "la salute prima di tutto", "basta con le promesse vuote".

Ecco, è arrivato il momento di dimostrarlo.
Perché fare le interviste con parole vaghe, dicendo tutto e il contrario di tutto, non vi fa più apparire intelligenti: vi fa apparire complici.
E il vecchio gioco delle tre carte, francamente, ci ha rotto i cogl...ni.
Ops, scusate il francesismo… sarà la colecisti che ancora parla al posto mio 😅

Cari sindaci e amministratori, ci aspettiamo una decisione politica e non una scelta tecnica.
Perché la salute dei cittadini non si baratta.
Non basta un timbro, un progetto tecnico o un calcolo sulla carta.
Serve chi ha il coraggio di scegliere, di dire no a interessi economici che mettono a rischio la vita delle persone. Serve coerenza, trasparenza, ascolto vero — e soprattutto azione politica.

Perché di gente che si ammala, di figli che non possono respirare e di madri che piangono ce ne sono già fin troppi.
E da voi ci aspettiamo molto di più di belle parole: chiediamo responsabilità politica concreta.
Non per un favore, ma per un diritto: il diritto alla salute. 🌱

Concludo con una frase semplice:
Siate uomini. Siate umani. E vogliate davvero bene alla vostra gente.
Perché il rispetto non si impone, si guadagna.
E oggi il popolo ha bisogno di verità, non di slogan.

📘 Diario di bordo – N°7 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°7 | Luglio 2025

“Ci sono carezze che non passano dalle mani, ma dalle parole.”

In questi giorni in cui la mia strada si è fatta più incerta, piena di curve strette e salite impreviste, ho ricevuto un’ondata di messaggi, parole, abbracci virtuali e anche reali.
E sapete che vi dico?
Mi hanno fatto un gran bene.
Mi hanno dato quella spinta che serve quando hai le gambe molli e il cuore un po’ in disordine.
Perché dentro ogni vostro messaggio ho trovato carburante puro per l’anima, di quello buono, senza emissioni nocive.
E io lo trasformo in forza. In voglia di lottare. In gratitudine profonda.

Io sono quello che leggete.
Quello che non sa fingere.
Quello che ha fatto della trasparenza uno stile di vita, anche quando sarebbe stato più comodo starsene zitti o dietro le quinte.
Ho sempre pensato che la vita vada vissuta a volto scoperto, con tutte le rughe, le cicatrici e i graffi che ti porti addosso.
Il mio modo di essere è questo: darmi agli altri con ciò che so, che ho imparato, che ho sbagliato.
A volte mi espongo troppo, sì, e prendo delle sonore “botte”.
Ma fa parte del gioco.
Se sei vero, rischi sempre. Ma non potrei fare diversamente.

E sì, può darsi che a volte appaia scontroso.
Ogni tanto ho l’espressione da “guardia giurata della verità” e lo sguardo da “non rompere che già ho i miei pensieri”.
Ma ve lo dico col cuore in mano: non chiedetemi mai di scegliere tra “o con me o contro di me”.
Perché in quel caso – senza rancore ma con chiarezza – mi troverete contro.
Per me la libertà di pensiero è sacra. Più di un decreto, più di un partito, più di un dogma.

Adoro l’umiltà.
Le persone umili mi insegnano cose che nessuna enciclopedia potrà mai spiegarmi.
Sono il peggior nemico degli arroganti, dei furbetti, degli “esperti di tutto”, di quelli che sanno tutto ma non hanno capito niente.

E poi, diciamocelo:
in questo mondo pieno di gente che parla a caso, restare umani è già un atto rivoluzionario.
Quindi grazie a voi, amici miei, per esserci.
Perché in questa traversata un po’ burrascosa, le vostre parole sono state e saranno il mio giubbotto di salvataggio… e pure una pacca sulla spalla.

E ora vado.
Mi prendo cinque minuti di pausa per pensare…
Magari in silenzio… magari no…
Magari litigo con l’ecografo (che continuo a sospettare sia un porta sfiga professionista 😅).

giovedì 3 luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°6 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°6 | Luglio 2025

“Quando il tempo rallenta, anche i pensieri fanno più rumore… e a volte pure la cistifellea.”

Inizia così questo nuovo capitolo.
Due giorni, due schiaffi. Uno fisico, l’altro morale.
Perché il 1° luglio, giorno del mio compleanno, invece di spegnere candeline e farmi gli auguri da solo davanti a una fetta di torta, ho pensato bene di regalarmi…
una bella ecografia.

Non una cena romantica, non un brindisi con gli amici, no, io sono il tipo che si festeggia con una visita medica, rigorosamente a pagamento, perché se aspetti l’ASL ti danno appuntamento direttamente nel presepe vivente del 2026.
Motivo?
Un dolore acuto e persistente sotto le costole a destra, che da un po’ si faceva sentire e che, giustamente, il mio corpo ha deciso di intensificare proprio nel giorno in cui avrei voluto solo pensare al futuro con un filo di leggerezza.

Risultato?
Dalla serie “quando piove, piove sul bagnato”:
un grosso calcolo alla cistifellea, accompagnato da altri piccoletti ben più pericolosi.
Diagnosi: da operare.
🎁 Buon compleanno a me e alla mia cistifellea!
Eccecavolooooooo!!!

E non è finita qui.
Perché il giorno dopo, 2 luglio, così – giusto per non farci mancare niente – mi arriva l’esito dell’istologico.
Via WhatsApp.
Sì, proprio così.
Nessuna chiamata, nessuna voce, una notifica e via. Come se ti dicessero che è finita la promozione sul tonno al supermercato.
Un referto che avrebbe meritato uno sguardo umano, un confronto, un tono di voce rassicurante...
E invece: bling, e ti crolla il respiro.

Sembra che mi tocchi una strada lunga, delicata, complicata.
E sinceramente, spero solo che non sia tutta in salita, perché oggi come oggi, moralmente non so se ho fiato e forza per arrivare in cima.

Ci provo, eh.
Mi alzo ogni giorno e ci provo.
A credere che ce la farò, che la vita può ancora sorprendermi in positivo, che il dolore non è per sempre.
Ma oggi – ve lo dico sinceramente – il sorriso lo porto fuori solo con lo scontrino.

Ringrazio chi mi sta vicino, chi mi scrive, chi mi legge in silenzio.
Scrivere è l’unico modo che conosco per tenere in ordine il caos.
E se ogni tanto uso l’ironia, è perché è la mia corazza più leggera e onesta.

E ora lasciatemi fare una domanda che mi tormenta da giorni...
Ma non sarà che è proprio l’ecografo che mi porta sfiga?! 😅

mercoledì 2 luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°5 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°5 | Luglio 2025

“Quello che non vorresti mai leggere, e invece lo leggi. E ti cambia il respiro.”

Quello che non volevo sentire…
Quello che avrei voluto rimandare all’infinito…
E invece è arrivato.
Con la freddezza di un messaggino WhatsApp.
Sì, proprio così: un esito istologico comunicato via WhatsApp, come fosse la lista della spesa o un meme da condividere.
Una notizia che meriterebbe silenzio, tatto, voce. Invece: bing, notifica, gelo.

È dura, amici miei.
Sembra che mi tocchi una lunga strada da percorrere.
E sinceramente, spero con tutto il cuore che non sia tutta in salita… perché oggi, così come mi sento ora, moralmente non so se avrò il fiato per arrivare in cima.

Mi sto sforzando di non crollare.
Mi ripeto che il coraggio non è non avere paura, ma affrontarla anche quando tremi dentro.
Ma lasciatemelo dire: oggi il mio coraggio è in mutua.

C’è una parte di me che vorrebbe scomparire per un po’, spegnere il mondo, mettere in pausa tutto.
E poi ce n’è un’altra, testarda, che mi sussurra: “non è finita, la salita forse ti mostrerà orizzonti che nemmeno immagini…”

A chi sta affrontando battaglie simili alla mia: vi stringo forte.
A chi mi vorrà restare accanto: grazie, di cuore.
Non so dove mi porterà questa strada, ma una cosa è certa: non la farò fingendo di stare bene, ma affrontandola per quella che è. Con le mie fragilità, i miei silenzi e, quando possibile, con un sorriso vero.

Oggi niente frasi ironiche.
Oggi solo la cruda verità.
Ma anche nei giorni più duri, questo diario resta aperto.
Perché scrivere è il mio modo di non perdere il filo, di tenermi aggrappato alla vita.

📘 Diario di bordo – N°4 | Giugno 2025

📘 Diario di bordo – N°4 | Giugno 2025

🚴‍♂️ GIRO COMPLETATO. CIMA RAGGIUNTA. ORA LA DISCESA (sperando che i freni tengano!)

Ed eccoci qui. Altro giro, altra tappa. È il mio compleanno. Un giorno come gli altri? Forse. Ma si sa: ogni giro di boa va celebrato, anche solo con un sorriso ironico e un respiro profondo.

🎂 Gli anni cominciano ad essere un bel pacco gara… e quella famosa “cima”, quella del mito, l’abbiamo raggiunta. Sì, ho già “scollinato”. Ora sono in discesa, e se tutto va bene, senza mani! Ma con la speranza che i freni reggano, soprattutto quelli del buon senso e della salute.

🛠️ Ovviamente, come ogni buon ciclista di lungo corso, ho dovuto fermarmi a fare qualche pit-stop: un tagliando qui, una revisione là, un check ai battiti, uno sguardo ai pensieri storti. Perché la meccanica – soprattutto quella umana – ogni tanto fa i capricci. Ma siamo ancora in corsa, e con dignità.

😄 Non corro più per dimostrare nulla, ma per godermi il vento in faccia, le storie vissute, gli abbracci veri e i progetti che ancora bruciano sotto la pelle. La strada è meno lunga di ieri, ma è tutta da vivere.

🧠 E poi c’è il carattere. Il mio. Un po’ scontroso a volte, vero. Non sempre facile da domare, ma mai fasullo. Non mi sono mai piegato ai venti del convenzionale, e ho sempre preferito una parola sincera a cento inchini inutili. La vita è una ruota, gira per tutti, e quando sei in salita impari chi sei. Ma anche in discesa serve equilibrio. Ed è lì che si vede la stoffa.

💬 Non sono perfetto, ma sono autentico. Ho il vizio di dire la mia, anche quando sarebbe più comodo stare zitto. Ma l’ho imparato col tempo: chi tace sempre, a furia di ingoiare, si dimentica il gusto della verità.

🎈Oggi ringrazio chi ha corso con me, chi ha tenuto il passo, chi mi ha aspettato ai box, chi mi ha fatto compagnia anche solo per un tratto. E un pensiero a chi non c’è più, ma ha lasciato segni preziosi sulla mia mappa interiore.

La corsa continua. Più lenta? Forse. Ma ancora con la voglia di guardare avanti e vivere con la catena ben oliata e il cuore in salita.
Buon compleanno a me. 🎂🥂

giovedì 26 giugno 2025

📘 Diario di bordo – N°3 | Giugno 2025.

📘 Diario di bordo – N°3 | Giugno 2025.

Riflessioni serali in un momento di fantasia sfrenata durante un attacco di leggera paranoia (versione soft).

C’è un momento, quasi sempre dopo cena, in cui la mia mente — invece di rilassarsi — decide di fare le prove generali per una nuova serie Netflix dal titolo: “Ma dove stiamo andando a finire?”
La trama è semplice: il mondo è nel caos, la gente impazzisce, la politica deraglia, la natura si ribella… e io sogno.

Sì, sogno.
Sogno un posto come quello della foto che ho davanti agli occhi.
Una spiaggia al tramonto, una coperta, due cuscini, un falò, una bottiglia di vino, e il silenzio interrotto solo dal suono delle onde.
Niente notifiche, niente bollette, niente telegiornali che sembrano horror, niente polemiche social da tastiera.
Solo natura, calma e un briciolo di pace interiore che non guasta mai.

Nel frattempo, nella realtà, il mondo si comporta come un bambino capriccioso con la febbre a 40.
Le guerre aumentano, i prezzi salgono, i diritti scendono e la stupidità... vola.
Sembra che la serenità collettiva sia stata dichiarata fuorilegge o peggio ancora, considerata comunismo romantico.

E allora mi rifugio in questi pensieri.
Sogno di brindare con qualcuno che non parli di guerra, ma di sogni.
Di guardare il fuoco e non il fuoco incrociato di notizie che fanno a pugni con la verità.
Di stare in riva al mare come se fosse l’unica vera patria possibile.

Lo so, magari è una fuga.
Ma a volte evadere con la mente è l’unico atto rivoluzionario rimasto.

Perciò, se mi cercate, sappiate che mentalmente sono lì.
Sulla sabbia.
A discutere con le stelle e a ridere con la luna.
Col bicchiere mezzo pieno (di rosso), anche se – diciamolo – il vino mi è stato rigorosamente proibito dal medico.
Quindi sì, lo ammetto: è una trasgressione puramente immaginaria, un brindisi alla salute fatto solo con la mente.
Ma che volete… anche la fantasia ogni tanto ha bisogno di ubriacarsi di libertà.

📘 Diario di bordo – N°2 | Giugno 2025

📘 Diario di bordo – N°2 | Giugno 2025

Ieri pomeriggio ho ricevuto uno di quei messaggi che ti cambiano il battito per qualche secondo, ma poi ti rimettono in pace con il mondo.
Un mio caro amico, ex collega di lavoro, mi ha scritto per dirmi che dopo circa 70 lunghissimi giorni ha finalmente ricevuto l’esito della sua biopsia.
Ed è tutto ok.
Sospiro di sollievo e un gran sorriso.

Sono felicissimo per lui.
Perché è una di quelle persone che ti fanno ancora credere nella bontà umana: sincero, genuino, leale.
E non lo dico tanto per dire. Durante i miei giorni di ricovero, si è preso la briga di venirmi a trovare in clinica. E sai, non è scontato. Quelle visite che sembrano piccole, ma ti scaldano il cuore come una coperta in pieno inverno.
Un gesto che porta dentro una stima profonda, vera.

Caro amico mio, questa vittoria è anche un po’ mia.
E ora incrocio le dita per me. 🤞

L’attesa del referto, come ben sai, è una di quelle esperienze che ti fanno diventare un misto tra un monaco zen e una pentola a pressione.
Cerchi di respirare, ma dentro ti sale un nervosismo che nemmeno tre camomille e un corso di yoga tantrico riescono a placare.
Eppure si resiste. Si va avanti.
Io non demordo. Aspetto. Con il sorriso (o almeno ci provo).

Ah, quasi dimenticavo:
in molti mi avete scritto chiedendomi dove acquistare il mio libro.
Ora, lasciate che ve lo dica chiaro:
non ho scritto nessun libro!
Non ho firmato contratti con Mondadori, non mi hanno chiamato da Feltrinelli, e nemmeno mia zia mi ha proposto di farmi stampare qualche pagina su carta da forno. 😅

Dovete accontentarvi dei miei "sfoghi social" dove, come un piccolo giullare digitale, metto in piazza emozioni, pensieri, battute e riflessioni.
Con un pizzico di ironia, una spruzzata di sarcasmo, e quel tocco di colore che serve per sdrammatizzare le cose serie e rendere leggere anche le giornate più pesanti.

E ora scusate, ma vado a controllare se per caso nel frattempo è arrivato l’esito anche per me...
(altrimenti, passo direttamente alla fase 2: interrogare le stelle o corrompere il postino!) 🌠📬😄

A presto amici miei.
Con affetto e sempre con un pizzico di follia (quella buona).
p.s. sopportatemi per quello che sono. 🤷‍♂️

lunedì 23 giugno 2025

📔 Diario di Bordo – N.1, Giugno 2025"Ospedali, odori e umanità perduta (o forse ritrovata)"

📔 Diario di Bordo – N.1, Giugno 2025
"Ospedali, odori e umanità perduta (o forse ritrovata)"

Dopo essere uscito dalla clinica per quel "problemino" che, più o meno, tutti quanti sapete (e gli altri lo immaginano), mi faccio coraggio e decido di tornarci… ma solo per chiedere la copia della cartella clinica.
Un’operazione semplice, penserete voi. E invece no. Perché nulla è semplice in Italia, soprattutto in sanità pubblica… soprattutto se il termometro segna temperature da deserto del Sahara.

Arrivo, cerco di individuare una fila che fila non è: una massa informe di esseri umani, chi con la faccia smarrita, chi con la pazienza già terminata, chi con l’aria di chi si è arreso da tempo. Tentar non nuoce, mi dico, e provo a mettermi in coda, o meglio… in una coda, perché di code vere non ce n'è. Intuisco a istinto chi potrebbe essere arrivato prima, cerco sguardi complici, sorrido con fare mansueto, ma l'ordine di arrivo resta una scienza arcana.
Nel frattempo, la calura rende l’aria densa. Vi giuro che le narici imploravano pietà. La situazione, per capirci, era in pieno stile tragico Fantozzi, con gli effluvi delle ascelle dei presenti che avrebbero potuto stendere anche un elefante africano.

Mentre sto per svenire – più per lo sconforto che per gli odori – noto una coppia di anziani. Lui visibilmente preoccupato, lei piegata dal dolore, in piedi a stento. Una scena che ti stringe il cuore. Mi permetto, con rispetto, di dire che potevano passare avanti. Qualcuno mormora, ma io me ne frego: in certi casi, l’umanità deve prevalere sul formalismo.

Quando arrivano allo sportello del CUP, ascolto con attenzione. Hanno bisogno di una TAC urgente. La risposta? "Non prima di sei mesi." La disperazione negli occhi di quei due è una lama. Lui, con uno scatto di dignità, dice:
"Allora pago, ma la facciamo subito."
Prezzo? 400 euro.
Lei, con un filo di voce e le lacrime che scendono come pioggia leggera, gli sussurra:
"Lascia stare… non possiamo permettercelo."

Vi giuro che in quel momento ero pronto a tirar fuori i soldi e iniziare una colletta. Mi tremava il cuore. Ma non ce n’è stato bisogno. Una delle addette del CUP, una donna che voglio ringraziare pubblicamente anche se non conosco il nome, prende il telefono e dopo dieci minuti, che sono sembrati un secolo, riesce a fissare la TAC per il giorno dopo all’ospedale Di Venere di Bari.

Ecco, la buona sanità non è solo fatta di sistemi informatici all’avanguardia, sale operatorie high-tech o direttori generali in giacca e cravatta. La buona sanità è fatta dalle persone, da chi mette cuore e testa oltre le regole, oltre i protocolli. È fatta da chi, anche in un’Italia sgangherata, non si dimentica mai di essere umano.

Faccio appena in tempo a commuovermi e a gioire per il lieto fine, che arriva il mio turno. È fatta, penso, con l’ingenuità di un bambino davanti al gelato.
Inserisco la carta nel POS… e la linea comincia a dare i numeri. Tre tentativi, quattro, cinque… sudore freddo e rischio blocco carta.
Nel frattempo gli odori in sala raggiungono picchi da allarme chimico.
Finalmente, dopo un’esalazione particolarmente letale che mi ricorda l’inferno dantesco, il pagamento passa.

Cartella richiesta. Ora attendo. Anzi no, resisto!

E se qualcuno pensa che mi basti questo piccolo traguardo… beh, si sbaglia.
Sono pronto alla prossima missione, magari con un kit di sopravvivenza da CUP: mascherina profumata, bottiglietta d’acqua e, perché no, un po’ di fiducia nel genere umano.

Alla prossima, con meno ascellari e più umanità.
🖋– Giovanni, viaggiatore instancabile nelle corsie della nostra sanità pubblica.

mercoledì 11 giugno 2025

🏥 🩺 Un racconto interrotto. E una riflessione amara sulla libertà e la dignità.

Oggi ho ricevuto un messaggio che mi ha stretto il cuore. Una delle protagoniste dei miei racconti, con grande educazione e dispiacere, mi scrive e mi chiede, dietro disposizioni ricevute dalla struttura, di rimuovere dai social le foto e i nomi che racconto nelle mie giornate in clinica. Un racconto semplice, umano, senza polemiche. Un modo per alleggerire il peso di un ricovero, per condividere con delicatezza momenti di cura, di incontri, di speranza.

Le immagini erano state già oscurate nei volti, nel pieno rispetto della privacy di tutti. Nei miei scritti non c’era una sola parola fuori posto verso la struttura, né verso chi ci lavora. Anzi: ho cercato solo di restituire dignità e leggerezza a una degenza, di testimoniare che si può vivere anche un ricovero senza perdere il sorriso, il contatto con l’altro, l’umanità.

Eppure, qualcosa ha infastidito la dirigenza. Forse non erano le immagini il problema. Forse erano proprio le parole. Soprattutto quelle finali, in cui osavo parlare di tutele, lavoro, precarietà, referendum, diritti.

Forse lì ho disturbato il manovratore. Forse lì ho superato un confine non scritto: quello che impone di non parlare, non pensare, non rivendicare.

E allora succede questo: ti chiedono, con garbo ma con timore, di cancellare tutto. Di far sparire ciò che è reale. Di tornare al silenzio. E tu, per rispetto di chi te lo chiede e per non creare problemi a chi è già precario e vulnerabile, lo fai. Ma dentro… ti si spezza qualcosa.

Perché non è solo una foto che sparisce, o un nome cancellato. È un pezzo di realtà che viene sepolta. È la paura che torna a vincere. È la dignità che arretra.

Nel frattempo, il referendum sul lavoro è stato affossato. Era prevedibile, ma non per questo meno doloroso. Gli italiani hanno voltato le spalle a una possibilità di riscatto. La classe lavoratrice si è lasciata sedurre dal silenzio, dall’indifferenza, dalla paura. Ha scelto la resa.

E io, oggi, mi chiedo: con quale spirito tornerò in quella clinica?
Con rispetto, certo. Ma anche con tristezza. Perché so che lì dentro ci sono tante persone splendide, professionisti e umani straordinari… che però non possono parlare. Che devono piegare la schiena, abbassare lo sguardo, fingere che tutto vada bene.

Non li giudico. Li comprendo. Perché so quanto è difficile alzare la testa e il costo da pagare.
Ma io, Giovanni, ho deciso di non smettere di raccontare, di riflettere, di denunciare.

Anche se devo oscurare un volto. Anche se devo cancellare un post. Perché la realtà non si cancella. E la dignità, quando la perdi, non la recuperi più.

domenica 8 giugno 2025

Cronache di un ricovero in clinica – Sedicesima (e probabilmente ultima) puntata. Senza orario. Solo il tempo delle emozioni.

Questa volta niente orari precisi, niente sveglie alle 6 per misurare la pressione, né rumori di carrelli che scivolano nei corridoi come navi nella nebbia.
Stavolta bisogna riavvolgere il nastro e tornare a quel 22 maggio, quando tutto ebbe inizio.

Entravo in clinica per un day hospital con il cuore gonfio di paura, come un bambino il primo giorno di scuola.
Avevo in tasca la carta d’identità, la tessera sanitaria e… una montagna di pensieri.
Il mio corpo era lì, seduto in sala d’attesa, ma la mia mente era un vortice: e se succede qualcosa? E se l’anestesia fa male? E se non ce la faccio?

Un via vai di persone. Medici, pazienti, infermieri.
Tutti con la loro storia, i loro silenzi, i loro sguardi bassi.
E poi, in mezzo a quel frastuono composto, una voce: “Pugliese? Chi è Pugliese?”
Alzo lo sguardo e incontro un sorriso che rompe il muro della paura.

Lei è Ilaria. Un’infermiera giovane, sveglia, sicura.
Ma soprattutto gentile, di quella gentilezza rara, spontanea, che non si può insegnare.
Mi accompagna per i prelievi, per l’elettrocardiogramma, e tra una fiala e un cerotto inizia anche a curare le mie ansie.
Le confesso con tono tra il serio e il tragicomico che “l’epidurale mi fa più paura dell'operazione.
Lei sorride. Ma non ride di me. Mi capisce. E trova le parole giuste.

Ed è proprio lei, davanti all’anestesista, che con voce ferma suggerisce:

> “Dottore, meglio un leggero sedativo prima dell’epidurale. Lo aiuterà a stare più tranquillo.”
Ecco, quel momento non lo dimenticherò mai.
Non era solo professionalità.
Era umanità. Era prendersi cura. Era mettersi nei panni dell’altro.

Le dissi con la voce incrinata dall’emozione:

> “Mi hai dato coraggio. Mi hai fatto sentire meno solo.”
E lei, quasi sorpresa:
“Dici davvero?”
Certo che dico davvero. E lo ridirei cento volte.

>"Stai tranquillo, ci vediamo il 4 giugno in reparto" esclama lei, "sono una delle infermiere del reparto dove sarai di stanza". 😇

Quando poi, il 4 giugno, arriva il momento dell’intervento, la ritrovo lì, con lo stesso sorriso e la stessa dolcezza.
Si affaccia nella stanza, mi saluta con un “ciao” luminoso e io capisco in un istante che tutto andrà bene.
Perché in fondo, anche nei momenti più bui, basta una luce. Anche piccola. Ma vera.

Ecco, cari lettori, questa è la fine (forse) della mia cronaca.
Non so se vi ho fatto sorridere, riflettere o magari solo compagnia.
So solo che ho cercato, con un pizzico di ironia e una dose abbondante di cuore, di trasformare la paura in racconto, il dolore in condivisione, la fragilità in forza collettiva.

Adesso mi aspetta l’attesa del referto, quella che non si racconta mai nei film, ma che tutti i pazienti conoscono bene.
Un’attesa fatta di silenzi lunghi e pensieri che vanno e vengono.
Ma oggi so una cosa in più: non siamo mai davvero soli.

C’è sempre una mano tesa, un sorriso inaspettato, una parola che ci fa sentire visti e ascoltati.

E lasciatemi aggiungere ancora una cosa:
Tutti questi eroi in camice, questi angeli che ho conosciuto nei miei giorni in clinica, sono per la maggior parte lavoratori precari, tirocinanti, con contratti a termine.
Sono loro che ogni giorno reggono il peso della sanità, senza certezze ma con un’enorme umanità.
E pensando a loro, ai miei angeli, questa mattina andrò a votare per il referendum, e voterò SI, proprio per loro.
Perché meritano dignità, stabilità, rispetto.
Perché chi si prende cura di noi, merita di essere protetto.

E se posso concludere con un desiderio, è questo:

> Siate gentili. Sempre. Perché la gentilezza è una medicina potente. Non costa nulla, ma salva l’anima. La propria e quella degli altri.

A voi, che mi avete seguito, grazie.
Magari ci rivedremo… magari ci riscriveremo.
Intanto, abbracciate la vita. Anche nei corridoi di una clinica. Anche con un camice addosso. Anche con un referto in arrivo.

Con tutto l'amore che posso verso chi soffre,
🖋 Giovanni Pugliese.
🩺💙🌿

Cronache di un ricovero in clinica – Quindicesima puntata: Fuga per la vittoria.


Ore 11:55 – Sabato
Ebbene sì, cari lettori fedeli, l’ora X è scattata. Il dado è tratto, le dimissioni sono firmate e io – con la fierezza di chi ha appena finito una maratona tra prelievi, punture e brodaglie insipide – mi accingo a imboccare la gloriosa via del ritorno.

Saluto i miei compagni di sventura (ora compagni di rinascita), con quell’affetto tipico da ultima puntata di un reality show:

> “Oh mi raccomando, tienimi aggiornato se ti cambiano il catetere!”
“Un abbraccio, e salutami l’ossigeno!”

Lascio la stanza con passo lento, ma deciso, con il mio inseparabile trolley a ruote cigolanti – che ora pare suonare la colonna sonora di Mission: Impossible.
E mentre le rotelle stridono come se gridassero “Libertààà!”, la mente vaga, nostalgica e sorridente, attraverso i corridoi del ritorno, gli stessi che pochi giorni prima mi hanno portato qui, ignaro del piccolo tsunami emotivo che stavo per vivere.

È sabato. È quasi mezzogiorno.
E nella clinica regna un silenzio irreale, surreale quasi.
Nemmeno una flebo in sospensione, nemmeno il suono del carrello della colazione (quello che arriva sempre o troppo presto o troppo tardi).
Solo io, il mio trolley e un cuore pieno di gratitudine.

Mi scorrono davanti agli occhi i volti di tutte quelle anime belle che hanno popolato questi giorni:
– gli OSS che sanno sempre quando dire “ci vuole pazienza” (ma con l’occhio da sergente di ferro),
– gli infermieri che entrano con ago alla mano e sorriso disarmante,
– gli inservienti che col carrello delle pulizie sembrano suonatori d’arpa celestiale quando passano a sistemare le stanze.

E poi lui, il ragazzo dell’anestesia.
23 anni. Uno meno di mio figlio.
Con una calma olimpica e una voce da meditazione zen,
mi ha spiegato come sarebbe andata l’anestesia epidurale, e senza rendersene conto mi ha sbloccato il livello “coraggio plus”.
Guardandolo negli occhi ho pensato: “se lui è tranquillo, allora non posso certo fare la figura del fifone io!”
(E invece ero già pronto a fingere un malore solo per scappare via, ma non diciamolo troppo forte…)

E mentre scendo le scale (sì, le scale, perché l’ascensore è occupato da un paziente in camicia da notte e con una borsa dell’Eurospin piena di giornali vecchi – autentico mistero da reparto), mi godo questo piccolo trionfo silenzioso.

Cari amici, siamo ormai quasi al capolinea di questa rocambolesca cronaca ospedaliera, ma non posso chiudere senza parlarvi di lei.
Una figura quasi mitologica, che ha attraversato due mondi come una sorta di Virgilio del reparto.
La dolcissima Ilaria.
L’ho incontrata la prima volta al pre-ricovero, con quella sua voce pacata e rassicurante, mentre mi infilava l’ago nel braccio come se stesse raccontando una fiaba.
E poi – come in un film con i colpi di scena ben piazzati – me la ritrovo proprio nel reparto, nei giorni del ricovero.
Come a dire: “tranquillo, ci sono io, ce la facciamo.”
E io, lo ammetto, sul coraggio sono un filone, uno che al solo sentire “puntura” fa le prove generali del testamento.
Ma con lei, no. Con lei ho affrontato tutto come un eroe della mutua.

Nella prossima puntata – forse l’ultima, forse no – vi racconterò meglio di questa presenza luminosa, dolce come il miele (ma professionale come un tecnico di Formula 1), che mi ha fatto credere che anche nei momenti di debolezza, se accanto hai le persone giuste, puoi sempre ritrovare forza e serenità.

Restate sintonizzati, il sipario non è ancora calato.
🎬👨‍⚕️🧳

Cronache di un ricovero in clinica – Quattordicesima puntata: La valigia sul letto... quella di un lungo viaggio.


Ore 11:00
🎼 La valigia sul letto… è quella di un lungo viaggio, cantava Julio Iglesias con quel tono da conquistatore che non si spiega.
E invece la mia valigia, piazzata sul letto con nonchalance e un po’ di polvere accumulata in questi giorni, è quella del ritorno. Non un lungo viaggio, no… ma una traversata epica tra flebo, carrelli rumorosi e minestroni d’ordinanza, che, credetemi, manco Ulisse con la sua Odissea.

Telefono a casa:

> “Sto per uscire, venitemi a prendere!”
E mentre dall’altra parte sento un:
“Chiudi bene la valigia e non ti dimenticare la cartella clinica!” nella mia mente inizia a scorrere il film di questi gloriosi e grotteschi giorni trascorsi in clinica.
Altro che Netflix! Qui è roba da David di Donatello.

Rivedo come in un flashback cinematografico quel primo giorno d’ingresso:
dopo aver compilato modulistica degna di una dichiarazione dei redditi, arriva lui…
il “Caronte del corridoio”,
un signore gentile ma eternamente attaccato al telefonino, probabilmente per un dibattito filosofico esistenziale con un parente che – a giudicare dal tono – non rivedrà tanto presto per le feste comandate.

Con un gesto tra il messianico e il distratto, mi fa cenno di seguirlo.
Io, con la mia valigetta alla “Fantozzi in trasferta”, lo seguo silenzioso in un labirinto di corridoi che manco il Minotauro avrebbe avuto il coraggio di esplorare.
E dove mi parcheggia?
In uno stanzone neutro, grigio, dove trovo un'altra degente, seduta anche lei con l’aria da “chi me l’ha fatto fare”.

Passano cinque minuti e, con una grazia da mimo stanco, l’omino mi indica un altro corridoio, più buio e minaccioso, e mi dice con sguardo vago:

> “Vai lì in fondo… la tua stanza.”
Come se mi stesse indicando il portale per Narnia.

Entro e voilà: il sancta sanctorum della mia degenza.
La stanza mitica. Quella da cui è partita questa saga ospedaliera, quella dove sono nate le mie cronache, tra un misurino di pressione e una fesa di tacchino rinsecchita.
Nemmeno il tempo di posare la valigia e guardarmi attorno, che arriva un infermiere che sembrava il protagonista di un film di guerra:

> “Spogliati tutto, camice e via. Sala operatoria. In barella.”

Io, senza nemmeno sapere se avessi sbagliato porta o reparto, mi ritrovo in mutande (più spirituali che fisiche) a dover decidere quale dei tre letti occupare, come in un reality show sanitario:
Letto n.1: quello accanto alla finestra (freddo e pieno di spifferi),
Letto n.2: quello centrale (quindi il più esposto a ogni rumore),
Letto n.3: quello vicino al bagno (con ovvie conseguenze olfattive).

Dopo un rapido bim bum bam (giuro), punto sul letto a sinistra.
Scelta disgraziata.
Ma di questa scellerata decisione vi parlerò nella prossima puntata.

Spoiler: c’entrano un telecomando assente, un comodino bloccato e… un coinquilino notturno che russa come una motosega impazzita.

Restate sintonizzati: la saga continua, e non risparmierà nessuno! 😎🛏️💉

Cronache di un ricovero in clinica – Tredicesima puntata: Missione compiuta, si torna a casa.


Ore 10:40
🎺 Rullo di tamburi, squilli di tromba, partono le fanfare!
Sì, cari amici e affezionati lettori delle mie tragicomiche avventure cliniche… ce l’ho fatta!
Missione compiuta. Obiettivo raggiunto. Traguardo tagliato.
La “pipì della libertà” è finalmente stata prodotta, misurata, analizzata, accettata, e benedetta!
Posso finalmente affermarlo con orgoglio: si torna a casa.

Ma andiamo con ordine.

Ore 10:30 circa, dopo essermi svuotato più che il lago di Garda in piena estate, ho premuto con energia il tasto della campanella, con la stessa solennità con cui si suona il campanello di fine lezione a scuola.
Arriva l’infermiera, mi guarda, io le mostro il trofeo, anzi, la coppa del mondo in versione trasparente piena di liquido ambrato (ma non pensate male!).
Lei annuisce con un sorriso e dice:

> "Perfetto, ora aspettiamo solo l’ok del medico."
Applausi registrati. Pubblico in piedi.

E io, emozionato come un attore al suo debutto, mi sdraio con gli occhi al soffitto, lasciando che i pensieri si rincorrano:
“Ce l’hai fatta”, “torni a casa”, “non sentirai più il beeeeeep del saturimetro”, “niente più flebo che gocciola come un metronomo ansioso”.

Ed è proprio in quell’attimo sospeso tra realtà e sogno che…
la porta si spalanca con teatralità.
Un bagliore illumina la stanza.
E lei entra.

No, non è la Madonna (anche se per un attimo ho avuto il dubbio), non è la vincitrice di Miss Universo, è Giada.
Sì, Giada, l’angelo in carne, ossa e sorriso, con un foglio in mano che per me ha più valore della Costituzione Italiana.

> “Ecco le tue dimissioni, puoi andare. Tanti auguri!”

In quel momento il mio cuore ha fatto un salto carpiato, i miei occhi si sono velati di commozione e le mie gambe, per la prima volta dopo giorni, hanno sentito la voglia di alzarsi e danzare.
Giada ha pronunciato le parole più belle mai udite in clinica, altro che “la febbre è scesa” o “il brodo è caldo”.
Quelle parole erano musica celestiale.

E non finisce qui:
le chiedo timidamente il permesso di poterla citare nelle mie “cronache cliniche”.
Lei non solo accetta con entusiasmo, ma mi chiede l’amicizia su Facebook!
Ragazzi, io sto per uscire con la cartella clinica in una mano e una nuova amicizia nell’altra!

Ecco, è giunto il momento.
Rimetto i miei panni civili (che ormai odorano più di disinfettante che di casa), chiudo la borsa, saluto i miei compagni di stanza con un mezzo inchino da imperatore giapponese e…
mi incammino verso la libertà.

A chi ha seguito queste puntate con affetto, ironia, messaggi, cuori, like, e parole dolci:
non vi lascio, eh!
La saga continua, perché anche fuori dalle pareti della clinica ci sono cose da raccontare.
E, detto tra noi, ho ancora due o tre aneddoti che meritano la vostra attenzione.

Stay tuned, amici cari.
Il paziente è dimesso, ma il cronista non si ferma! 💙💉✍️

Cronache di un ricovero in clinica – Dodicesima puntata: L’attesa.


Ore 10:00.
Ebbene sì, cari amici delle “cronache cliniche”, siamo al gran finale.
La valigia è pronta (o meglio, la borsa con due pigiami stropicciati e il dentifricio consumato).
Lo spirito è alto, le speranze alle stelle e già immagino l’aroma del caffè di casa che mi accoglie come una nonna premurosa.
Ma – e c’è sempre un “ma” – c’è ancora un’ultima prova da superare, l’ultimo livello del videogioco chiamato "ricovero": l’urina di controllo.

Eh già.
Per poter dire “ciao clinica” e tornare finalmente nel mio focolare domestico, bisogna riempire quel benedetto contenitore. Non una goccia, non due, ma la quantità minima per essere presi sul serio dal laboratorio.

Ed è qui che casca l’asino.
Non so se è colpa dell’ansia da prestazione, o di un attaccamento quasi sentimentale alle infermiere e alle OSS che mi coccolano ogni giorno, ma il mio organismo – come dire – fa orecchie da mercante.
Ho già bevuto due bottigliette d’acqua come se fossi appena tornato dal deserto del Sahara, sto per aprire la terza, ma nel contenitore… il nulla cosmico.
O quasi.
Diciamo che è più un bicchierino da degustazione che una porzione da analisi medica.

Nel frattempo, scatta la scena da commedia all’italiana.
Faccio su e giù per la stanza come un condannato in cerca della grazia, con lo sguardo perso nel vuoto e le mani giunte in preghiera laica.
Ogni tanto, si affaccia l’infermiere con quel classico “Beh?” che in realtà significa:

> “Allora, hai fatto il tuo dovere oppure ci tocca rimandare tutto?”

Io, con lo sguardo basso e un filo di voce, rispondo:

> “Ancora poco…”

Dopo mezz’ora, cambio di attori: si presenta l’OSS. Stessa scena, stessa domanda.
E io? Stessa misera risposta.
A questo punto mi sento come quei mariti degli anni ’80, vestiti male e con i baffi storti, che camminano avanti e indietro dietro il vetro della sala parto, aspettando notizie della partoriente… solo che qui il bambino è una pipì che non vuol nascere!

Sarà la sindrome del paziente? Sarà il timore inconscio di abbandonare il nido protetto della clinica, dove ogni mattina ti chiedono come stai e ti sistemano il cuscino con amore?
Non lo so.
So solo che questo flusso bloccato è diventato metafora della vita: quando tutto sembra andare per il verso giusto, c’è sempre qualcosa che ti costringe ad aspettare.

Ma io non mollo.
La casa mi aspetta.
E anche il mio bagno, il mio caffè, le pantofole e – diciamolo – la mia privacy.

E allora sì, cari amici, oggi si combatte contro l’ultimo nemico: la vescica timida.
Ma vi prometto che ce la farò.
E se tutto va come deve, la prossima puntata sarà un inno alla libertà… dalla stanza XX! 💪💧🚽

Cronache di un ricovero in clinica – Undicesima puntata: “Pronto buongiorno… è la sveglia”

Ore 7:00.
“Pronto buongiorno… è la sveglia.”
Solo a pronunciarle queste parole, ai più nostalgici tremano le ginocchia e nella testa parte il ritornello di una vecchia canzone dei mitici Pooh. Altro che smartphone, qui la sveglia arriva in modalità analogica: porta che si spalanca, luce sparata in faccia e voce gentile (ma decisa) dell’infermiera che, con tono serafico, ci riporta nel mondo dei vivi.

Eccoci qui, dunque.
Nuovo giorno, stesso letto.
Una clinica di quartiere, un ospedale dal cuore grande, ma con i muri che trasudano di notti difficili.
La notte è passata tra due incubi principali:

1. La Nazionale italiana di calcio che si è fatta umiliare in TV (grazie ragazzi, ci avete fatto sentire come se ci avessero tolto il caffè al mattino);

2. I soliti schiamazzi notturni del quartiere, con urla, motorini e qualche canzone neomelodica in sottofondo, che nemmeno Radio Maria riuscirebbe a coprire.

E mentre sto lì, ancora stropicciandomi le palpebre e tentando di capire se sono sveglio o se sto sognando Fabio Caressa che commenta il mio ECG, ecco l’ingresso trionfale delle nostre infermiere di reparto.
Sorridenti, energiche, e con gli strumenti appesi al collo come cowgirl moderne del bene, si avvicinano a ognuno di noi come se fossimo opere d’arte da restaurare.
Pressione? Ok. Temperatura? A posto. Battito? Ancora ce l’hai.
Tutto perfetto, sembrerebbe.

Poi, arriva la notizia bomba, quella che ti fa alzare di colpo anche se non potresti:
“Se tutto va bene, dopo l’ultimo controllo… può anche essere dimesso.”

‼️ MOMENTO EPICO ‼️
Ecco, è in quel preciso istante che capisci che Dio esiste.
Non solo: è esistito, ti ascolta e ha anche le sembianze di un’infermiera col camice leggermente spiegazzato e il fonendoscopio rosa shocking.

Il cuore batte (finalmente, in modo regolare), la testa gira (ma solo per l’emozione), e il pensiero va subito a casa:

Il tuo letto.

Il tuo bagno.

Il tuo cuscino.

Il tuo Wi-Fi che prende sempre.

E la colazione con il pane vero, non quello che qui somiglia a un mattoncino Lego da mordere.

Ma non corriamo troppo.
C’è ancora una prova finale da superare: la famosa “operazione” sulla carcassa, come la chiamo io.
Nulla di grave, eh. Solo quell’ultimo passaggio tecnico che serve a confermare che sei pronto al mondo esterno.
Sì, perché qui dentro ci hanno rimesso insieme con cura, pazienza e tanta professionalità, ma là fuori il mondo è una giungla e bisogna essere preparati!

E allora, per ora stacco qui.
Vado a fare quello che mi hanno detto.
Ma con dentro un sorriso e un pensiero fisso: la voglia di tornare a casa è tanta, e questa volta, senza nemmeno passare dal via.

Incrociate le dita per me, amici.
E se tutto va bene… la prossima puntata sarà da casa mia! 🏡😉

Cronache di un ricovero in clinica – Decima puntata: “Forza Azzurri (e forza anche gli occhi)”

Ore 21:00.
Nella quiete della clinica cala il silenzio…
Un silenzio apparente, perché sta per succedere qualcosa di grosso.
Altro che somministrazione serale di ansiolitici: stasera gioca la Nazionale!

E qui in reparto, tra una flebo e una tachipirina, scatta l’operazione “Ultrà in pigiama”.
La TV – che di solito trasmette repliche di telenovelas bulgare o pubblicità di creme per le emorroidi – improvvisamente diventa sacra.
Un altare, una reliquia, una specie di San Siro a cristalli liquidi… anche se, diciamolo, è piccola quanto uno specchietto retrovisore.

Ma che importa?
Si organizza la visione con una strategia degna della NASA:
sedie spostate chirurgicamente per trovare l’angolo giusto, sguardi incrociati come quelli dei cecchini nei film, e una retina che chiede pietà, perché per distinguere un pallone da una formica ci vuole il coraggio di un falco pellegrino.

Io, con la foga da tifoso e il dolore dell'operazione ancora presente, mi siedo storto ma fiero, come chi sa che il dolore passa ma l’orgoglio azzurro resta.
Qualcuno scherza: “Speriamo che non ci facciano salire la pressione…”
Io rispondo: “Tranquillo, se vinciamo c’è già il personale pronto col misuratore.”

E poi parte la magia:
il calcio d’inizio.
Occhi puntati, cuore in gola.
La stanza si trasforma.
Non è più una camera di degenza, ma uno stadio in miniatura, con pareti color pastello e luci al neon.

Al primo tiro dell’Italia si alza il primo “OOOH!”…
e poco dopo il secondo “AAAH!” per un’occasione mancata.

Siamo un gruppo eterogeneo, ma quella maglia azzurra ci unisce tutti, proprio come una flebo condivisa.
Il bello è che non servono parole, basta un’occhiata per capire se è corner, rigore o strazio.

E anche se l’audio gracchia, e il commentatore sembra parlare da dentro una lavatrice, noi resistiamo.
Perché siamo tifosi veri.
Perché siamo italiani.
E perché, in fondo, questa partita ci fa sentire vivi, presenti, normali.
Anche se seduti in pigiama, con un cuscino dietro la schiena e il braccialetto identificativo al polso.

Questa decima puntata la dedico agli ultrà da corsia, a chi tifa con lo sguardo e con l’anima,
a chi stasera dimenticherà per novanta minuti il motivo per cui è qui dentro.

E come si dice in questi casi:
FORZA AZZURRI… e che vinca la salute!
🇮🇹⚽🛏️

Cronache di un ricovero in clinica – Nona puntata: “La cena è servita… e pure l’identità”

Ore 18:00 spaccate.
Il rito della sera ha inizio. Le ombre si allungano, la TV gracchia un po’ troppo alta dalla stanza accanto, e nel corridoio cominciano a farsi sentire i carrelli tintinnanti.
È l’ora della cena, signori e signore.
Un momento sacro, il terzo e ultimo spartiacque della giornata dopo colazione e pranzo. Il tempo qui dentro, l’ho detto e lo ripeto, non lo misuri con l’orologio ma con la posata.

Ed ecco che, come da copione, entra in scena Lei, la regina del carrello, la signora della cena, la maestra del menù personalizzato.
Con mossa elegante e tono familiare entra in stanza, distribuisce vassoi come se stesse servendo a Buckingham Palace e si ferma davanti a me.
Mi fissa.
Solleva il dito indice in modo solenne, un po’ da inquisitore medievale, un po’ da zia al pranzo di Natale, e…
“Io conosco tua moglie… e conosco pure te!”

😳
Silenzio.
Trattengo il cucchiaio sospeso a mezz’aria.
“Oddio,” esclamo io, con l’aria colpevole di chi ha appena rubato un biscotto di nascosto, “spero che non sia una brutta cosa…”
Ma lei ride: “Ma no, cosa dici! Siamo compaesani. Ti ho visto a Statte più volte.”

E lì scatta la svolta.
Mi si gonfia il petto, il cuore si allarga:
vuoi vedere che sto diventando un VIP a mia insaputa?
Un Ferragni del corridoio C? Un influencer di corsia?
Altro che ricovero… qui è tutto un reality, solo che invece dei followers ho i globuli bianchi e i valori delle analisi!

Così, sull’onda dell’entusiasmo e del riconoscimento popolare, le chiedo se posso immortalarla con una foto, per raccontare questo simpatico episodio nella mia saga clinica. Lei acconsente con la grazia di chi è abituata al successo, e io già penso alla caption su Facebook: “La signora che conosce tutti, Statte compresa!”

Ma torniamo al punto focale:
la cena.

Nel vassoio, l’apertura è con un minestrone di verdure con riso. Ora, diciamolo:
non è proprio il mio piatto del cuore.
Sarà che è troppo buono, sarà che ha troppe verdure, sarà che mi ricorda certi esperimenti scolastici delle mense anni ‘80, ma lo assaggio solo per educazione. Giusto un paio di cucchiaiate, come si fa con la zia che cucina male ma ci tiene tanto.

Poi passo al secondo:
fesa di tacchino con contorno di carote rosse.
E qui devo dire che il tacchino fa il suo lavoro, non entusiasma, non delude. È onesto, fa la sua parte.
Accompagno il tutto con l’immancabile panino mignon, che ormai è diventato più famoso del mio referto. Credo abbia più presenze in stanza di qualsiasi altro essere vivente.

A chiudere il banchetto, l’anguria.
Sorpresa! Fresca, dolce, quasi estiva, che a questo punto ci voleva come un ombrellone in corsia.

Insomma, una cena sobria, niente da chef stellati, ma neanche da denuncia.
D’altra parte, se volevo mangiare foie gras andavo da Cracco, non in una struttura sanitaria accreditata.
E va bene così.

Concludo questa nona puntata sorridendo, con lo stomaco semipieno e il cuore grato.
Perché anche oggi ho scoperto qualcosa: che a volte basta una frase gentile e un viso amico per sentirsi un po’ più a casa.

A domani, amici miei.
E ricordate: se una signora entra e dice di conoscervi…
state calmi. Potrebbe solo essere la vostra prossima fan! 😄

Cronache di un ricovero in clinica – Ottava puntata. Ore 17 – Il nuovo degente di stanza

La quiete del pomeriggio viene frantumata dal cigolio di una sedia a rotelle che varca l’ingresso della stanza come fosse un trono mobile. A bordo, un nuovo coinquilino di stanza, accompagnato da una OSS con l’entusiasmo di chi sta consegnando un premio Nobel alla convivenza civile:
“Vedrà, qui si sta benissimo. Ottima compagnia!”
Traduzione simultanea nella mia testa: “Auguri.”

L’uomo si sistema con l’aria di chi ha appena acquistato un appartamento e subito si lamenta del comodino troppo alto. Un classico. Il primo impatto, come al primo appuntamento al buio, è fondamentale. E qui siamo già al livello: “Mi aspettavo di meglio dalle foto”.

Con uno sguardo che cerca solidarietà, punto gli occhi sull’altro paziente, quello che ho soprannominato “Brontolo” la prima notte dopo l’operazione. Ora capisco che quel soprannome era forse un complimento.

Poi, ecco il colpo di scena. Il nuovo arrivato, con un balzo degno di un miracolo televisivo, si alza dalla sedia e si fionda alla finestra. La vista deve avergli rievocato tempi antichi, tipo "Romeo e Giulietta" versione parcheggio multipiano, perché comincia a chiamare i suoi parenti con una voce che pare uscita direttamente dal ventre di un contrabbasso.

“Marìààààà! Giggiiiiiì! So' qua suuuu!”

Per un attimo ho pensato che volesse annunciare la sua presenza anche al quartiere limitrofo. Nessuna risposta, ovviamente. I parenti giù per strada sembrano non sentire. E io penso: “Meno male. Qualcuno lassù ci ama.”

Poi, il baritono si volta verso di me e chiede con tono ansioso:
“Ma qui prende il telefonino?”
Vorrei rispondergli con un saggio monologo in stile TED Talk su come, nel 2025, anche i piccioni abbiano il 5G integrato nel becco. Ma mi limito a un diplomatico:
“Più o meno…”

Quando finalmente riesce a telefonare, capisco che l’unico vantaggio del suo tono di voce è che si potrebbe comunicare anche senza campo.
“SONO ARRIVATOOOOOO!!! STO NELLA STANZA XXX!!! SI! X-X-X! CON DUE SIGNORI MOLTO GENTILI!”

“Molto gentili”? Non so se ringraziarlo o cercare su Google se ci sono stanze insonorizzate.

Il tutto è successo in appena trenta minuti. Una mezz'oretta che è sembrata una miniserie in otto episodi con finale aperto.
E la notte deve ancora cominciare.

Speriamo bene.
Anzi, incrociamo le flebo.

📘 Diario di bordo – N°10 | Luglio 2025

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