domenica 8 giugno 2025

Cronache di un ricovero in clinica – Ottava puntata. Ore 17 – Il nuovo degente di stanza

La quiete del pomeriggio viene frantumata dal cigolio di una sedia a rotelle che varca l’ingresso della stanza come fosse un trono mobile. A bordo, un nuovo coinquilino di stanza, accompagnato da una OSS con l’entusiasmo di chi sta consegnando un premio Nobel alla convivenza civile:
“Vedrà, qui si sta benissimo. Ottima compagnia!”
Traduzione simultanea nella mia testa: “Auguri.”

L’uomo si sistema con l’aria di chi ha appena acquistato un appartamento e subito si lamenta del comodino troppo alto. Un classico. Il primo impatto, come al primo appuntamento al buio, è fondamentale. E qui siamo già al livello: “Mi aspettavo di meglio dalle foto”.

Con uno sguardo che cerca solidarietà, punto gli occhi sull’altro paziente, quello che ho soprannominato “Brontolo” la prima notte dopo l’operazione. Ora capisco che quel soprannome era forse un complimento.

Poi, ecco il colpo di scena. Il nuovo arrivato, con un balzo degno di un miracolo televisivo, si alza dalla sedia e si fionda alla finestra. La vista deve avergli rievocato tempi antichi, tipo "Romeo e Giulietta" versione parcheggio multipiano, perché comincia a chiamare i suoi parenti con una voce che pare uscita direttamente dal ventre di un contrabbasso.

“Marìààààà! Giggiiiiiì! So' qua suuuu!”

Per un attimo ho pensato che volesse annunciare la sua presenza anche al quartiere limitrofo. Nessuna risposta, ovviamente. I parenti giù per strada sembrano non sentire. E io penso: “Meno male. Qualcuno lassù ci ama.”

Poi, il baritono si volta verso di me e chiede con tono ansioso:
“Ma qui prende il telefonino?”
Vorrei rispondergli con un saggio monologo in stile TED Talk su come, nel 2025, anche i piccioni abbiano il 5G integrato nel becco. Ma mi limito a un diplomatico:
“Più o meno…”

Quando finalmente riesce a telefonare, capisco che l’unico vantaggio del suo tono di voce è che si potrebbe comunicare anche senza campo.
“SONO ARRIVATOOOOOO!!! STO NELLA STANZA XXX!!! SI! X-X-X! CON DUE SIGNORI MOLTO GENTILI!”

“Molto gentili”? Non so se ringraziarlo o cercare su Google se ci sono stanze insonorizzate.

Il tutto è successo in appena trenta minuti. Una mezz'oretta che è sembrata una miniserie in otto episodi con finale aperto.
E la notte deve ancora cominciare.

Speriamo bene.
Anzi, incrociamo le flebo.

Cronache di un ricovero in clinica – Settima puntata: “Il ritorno del pranzo da seduti”

Ore 12:30.
“Il pranzo è servito!”
A dirlo non è uno chef in smoking né un maître con guanti bianchi, ma la nostra meravigliosa inserviente, che sbuca sulla soglia della stanza come un annuncio del destino, con la mitica frase di rito:
“Chi si può alzare e chi no?”

Al che, io — con un moto d’orgoglio, una fiammella di dignità appena riaccesa e la postura di chi ha vinto almeno una battaglia — rispondo pronto:
“Io posso, finalmente ho finito l’agonia del pranzo a letto!”

Lei sorride, sincera, e con quella dolcezza che solo chi fa questo lavoro con il cuore può avere, dice:
“Benissimo, sono veramente contenta per voi.”
E no, cari lettori, queste non sono frasi di circostanza.
Per chi è qui dentro, lontano dal suo letto, dai suoi oggetti, dalle sue abitudini, ogni parola gentile è un balsamo, ogni frase sentita è una carezza che sfiora l’anima.

E ora passiamo al piatto forte del giorno: il pranzo.
Ebbene sì, siamo tornati al solido.
Dite quello che volete, ma dopo giorni di semiliquidi dal colore incerto, vedere un piatto di pasta con zucchine ha avuto lo stesso effetto di una cena stellata.
Pur non essendo un fan di questo genere di minestra (anzi, a casa mia le zucchine solitamente hanno vita breve e destino infelice), oggi ne ho mangiata metà porzione con gusto e senza fiatare.

Secondo piatto?
Stelle di pollo impanate, probabilmente al forno, con contorno di verdura cotta.
Un piatto sobrio, onesto, dignitoso, che mi ha fatto sentire, almeno per mezz’ora, un uomo riconciliato con la digestione.
Frutta: una banana.
Pane: il solito piccolo panino, sempre più piccolo, quasi simbolico, ma ormai parte integrante dell’esperienza spirituale.

E mentre gustavo il tutto, seduto (!!!) al tavolino, con una mano sulla forchetta e l’altra sul cuore, riflettevo su quanto conti il sostegno vero.
Perché i messaggi che ricevo, le chiamate, i commenti sotto i miei post… sono il termometro dell’affetto sincero.
Quello che non dipende da ruoli, da incarichi, da “posti che contano”.
Quello che resta quando non hai più nulla da dare se non la tua sincerità, la tua umanità, nuda e cruda.

Grazie. Davvero.
A voi che leggete, a voi che mi scrivete, a voi che ci siete.
Perché anche da un letto di clinica, con una banana come dessert e un lenzuolo che pizzica, ci si può sentire amati.

Alla prossima puntata,
che magari si intitolerà: “Il misterioso ritorno della camminata autonoma”… ma non corriamo troppo.

🔺️ Cronache dal (quasi) Grand Hotel San Camillo 🏨😷

Molti mi chiedono dove sto passando queste "vacanze forzate". Ebbene sì, vi scrivo dalla suite del Carlo Fiorino Hospital, che per noi nati ai Tamburi resta sempre la San Camillo: la clinica più amata da chi non voleva andarci.

Sto qui, cercando di domare il tempo che non passa mai… e già che ci sono, mi improvviso cronista di corsia. Pensieri ne ho tanti, storie ancora di più — alcune meglio lasciarle tra le lenzuola d’ospedale.

Spero di non annoiarvi… ma in caso, potete sempre cambiare reparto! 😜

venerdì 6 giugno 2025

Cronache di un ricovero in clinica – Sesta puntata: “Houston, ho lasciato il letto”.

Ore 11:10.
Entra in stanza un’infermiera. Aria decisa, passo sicuro, sorriso che sa già tutto prima ancora di chiedere.
"Bene, oggi può sedersi sul bordo del letto."
Così, con la naturalezza con cui si annuncia che c’è il sole fuori, lei mi comunica la notizia dell’anno.

Sì, amici, avete capito bene: mi hanno dato il permesso di sedermi.
Non di camminare, non di ballare il tip tap, ma di sedermi ai bordi del letto.
Una roba che fino a ieri sembrava banale quanto bere un bicchiere d’acqua, oggi è diventata l’evento più atteso dopo il cenone di Natale.

Mi raccomandano:
“Attento, non si alzi in piedi, potrebbe girarle la testa.”
E io, con fare da astronauta che deve mettere piede sulla Luna, prendo fiato e affronto la sfida.

Ma prima… eh già, prima c’è il momento della vestizione.

Chiedo timidamente se può porgermi l’intimo dal comodino. Lei, dolce e professionale, si offre di aiutarmi.
Ma no!
La mia testardaggine (che ormai ha un nome proprio) si ribella, e con un misto di orgoglio, goffaggine e un pizzico di vergogna, declino l’aiuto.
E allora via, parte la scena da circo, una sorta di acrobatica lotta corpo a corpo con mutanda e gravità, il tutto condito da smorfie di sforzo, sospiri degni di un montaggio alla Rocky Balboa, e quel pensiero costante:
“Ma chi me lo fa fare?”

Alla fine, sudato come dopo una maratona immaginaria e con la schiena che urla vendetta, ce la faccio.
Pronto. Rifornito. Intimato.
È il momento.

1… 2… e 3!
Mi sollevo.
Mi siedo.
In equilibrio precario, con i piedi che sfiorano il pavimento e la schiena che chiede pietà… ma seduto.
Finalmente.

È successo.
Dopo giorni in posizione supina come un bradipo con la cervicale, mi sono sollevato.
È poco, lo so. Ma per chi sta in ospedale, ogni gesto è una conquista. Ogni passo (anche se solo mentale) è un viaggio.

E così, seduto sul mio trono instabile, guardo la stanza con occhi diversi.
Sento l’aria diversa, quasi più leggera.
È un piccolo ritorno alla vita. Un passo incerto verso la normalità.

“Un piccolo passo per l’uomo, un grande evento per il ricoverato.”

Alla prossima puntata, sempre qui dal fronte, dove il bordo del letto è la nuova frontiera dell’esplorazione umana.

🔴 Cronache di un ricovero in clinica – Quinta puntata: “Gli angeli con la maglietta celeste”.

“L’inserviente vien di notte con le scarpe tutte rotte…”
Eh no, questa è la Befana. Qui invece sono le 10 del mattino, l’orologio biologico è tarato sul post-colazione e pre-visita medica, e fa il suo ingresso il team più sottovalutato della sanità: gli inservienti.

Sì, loro. I mitici, i silenziosi, i custodi del pulito.
Non portano stetoscopi al collo né camici bianchi al vento, non prescrivono terapie né misurano pressioni, ma credetemi: senza di loro, altro che degenza… si sprofonderebbe nel caos e nella muffa emotiva.

Entrano con discrezione, scarpe silenziose, sguardo attento, gesto preciso.
Hanno il potere quasi mistico di spazzare via polvere, germi e un po’ anche il malumore, mentre con uno spruzzo di disinfettante rendono l’aria più respirabile (anche se con quel profumo da alcool etilico in stile "sambuca scaduta", ma fa parte del gioco).

Il letto, dopo il loro passaggio, sembra uscito da una pubblicità di ammorbidente. Il pavimento, che fino a un minuto prima ti sembrava “tollerabile”, diventa impeccabile, e ti accorgi che la tua stanza è più pulita della tua stessa casa.
“Ma com’è possibile? A casa mia il bagno non brilla così nemmeno dopo due ore con Vetril e bestemmie.”

Con le loro magliette celesti, sono un po’ ninja, un po’ samurai del mocio, e con quella gentilezza tipica di chi sa che ogni gesto conta, riescono a non disturbare nemmeno quando ti girano attorno con la scopa mentre tu tenti di ricordare in che giorno siamo.

A loro va il mio inchino e la mia gratitudine sincera.
Perché non è solo questione di pulizia: è che ci fanno sentire in un posto degno, curato, rispettato.
E quando sei in pigiama da tre giorni e la tua autostima giace sotto il letto, fidati, avere una stanza pulita ti rimette al mondo.

Grazie, angeli del pulito.
Grazie, custodi silenziosi delle corsie.
Grazie per ogni spruzzo, ogni spazzata e ogni sorriso accennato mentre passate al prossimo letto.

Ci vediamo domattina, stessa ora, stesso spruzzo.
E magari, stavolta, cerco di non farvi inciampare nel carrello della flebo.

Alla prossima puntata, amici.
Dal fronte lucido e profumato della clinica, è tutto.

Cronache di un ricovero in clinica – Quarta puntata: “L’ora della colazione”.

Ore 8:00. Il silenzio è rotto da un tintinnio lieve, quasi aristocratico. Arriva lei, la colazione, il primo dei tre momenti cardine che scandiscono la giornata del ricoverato.
Dimenticate orologi, calendari e app di mindfulness: qui il tempo si misura in pasti.
Che ore sono?
“Tra colazione e pranzo.”
Oppure:
“Dopo cena ma prima della pressione.”

Ed eccoci, dunque, all’appuntamento con il vassoio sacro. Io, che a casa bevo solo un espresso nero, crudo, con una bustina di zucchero di canna (perchè è più salutare??), e senza pietà, preparato dalla mia eroica macchinetta a cialde (che ormai considero più affidabile di certi medici di base), in clinica mi sono scoperto amante del tè slogan latte.

Sì, l’ho chiamato così perché non so bene come si chiami: è un tè, ma c’ha del latte dentro, ma non è un cappuccino e non è nemmeno un tè al latte all’inglese. È… tè slogan latte.
Un nome che fa chic e nasconde un cuore tiepido e vagamente insapore. Ma in questo contesto suona come un tocco british, quasi un atto di ribellione con il mignolo alzato.
“Altro che espresso. Da oggi sono un gentleman!”

L’accompagnano dei biscottini dal sapore rassicurante, buoni nella loro semplicità, e che – attenzione – non avrei mai mangiato a casa, ma qui assumono un valore quasi esistenziale.
È la sindrome da “minima cosa – massimo significato”.

Nel vassoio troneggiano la marmellatina e le fette biscottate. Io le guardo, le studio…
E poi con una strategia degna di una partita a scacchi con Kasparov, le metto da parte. Non si sa mai: verso le 10:17 potrei avere un languorino, e voglio essere pronto.
Perché, si sa: in clinica, chi ha la marmellatina in tasca ha un tesoro.

Ora, cari lettori affezionati, vi devo fare una confessione delicata.
Il motivo per cui mi tengo leggero a colazione non è solo il poco appetito, e nemmeno la malinconia del caffè casalingo... ma è la presenza inquietante della “pala”.

Sì, LA PALA.
Chi è stato ricoverato lo sa.
Chi non lo è mai stato, pensi a qualcosa tra l’attrezzo di tortura medievale e la vendetta postmoderna della società contro chi ha ancora un po’ di dignità.

Non vi preoccupate, non ve ne parlerò oggi.
La “pala” merita un capitolo a parte. Un romanzo, forse. O una tragedia greca.
Devo trovare le parole giuste, quelle che non urtino la sensibilità di nessuno… ma che vi facciano comunque capire che certe esperienze lasciano il segno. E non sempre metaforico.

Per ora, chiudo qui.
Con il tè slogan latte in mano e il pensiero che anche oggi, il vero lusso… è una digestione tranquilla.

Alla prossima puntata.
Sempre dal letto n. 110 del reparto, dove la vita scorre a biscotti e ironia.

Cronache di un ricovero in clinica – Terza puntata: “L’abbraccio di Morfeo e il risveglio militare”.

Dopo due notti insonni, spese tra cori da stadio, letti che scricchiolano come relitti e colleghi di stanza che sembrano avere un abbonamento al lamento notturno, e la prima passata a casa prima del ricovero, ieri sera sono crollato come un sasso.
Altro che sonno ristoratore: è stato un blackout sensoriale, una resa incondizionata del corpo e della mente. Morfeo, quel vecchio spacciatore di sogni, mi ha preso in braccio come una madre col figlio stanco e mi ha cullato in un sonno profondo, nero come il caffè alle 4 del mattino.

Poi… Bang!

Ore 6:30. Luci sparate in faccia come nei film americani quando la CIA interroga i sospetti. Entra lei: l’infermiera-caporal-maggiore, una donna dal sorriso smagliante ma con lo sguardo di chi potrebbe metterti in riga con un cenno del mento.
“Buongiorno! È l’ora della terapia!”
Boom. Sveglia dritto nel cervelletto. Mi alzo di soprassalto, gli occhi appannati, la bocca asciutta, il cervello ancora a zonzo nei meandri del sogno. Per un attimo ho pensato:

> “Sono morto? È questo il Paradiso? O un campo di addestramento?”

Poi la realtà si riforma, pezzo dopo pezzo: il soffitto bianco, il bip dei macchinari, l’odore di disinfettante... Ah, giusto: sono ancora in clinica.

Ma niente paura, si ricomincia. Il tempo di ritrovare la dignità sotto il lenzuolo stropicciato ed è già spettacolo nel letto accanto: il compagno di stanza, novello protagonista di un’operazione di logistica umana, telefona freneticamente ai suoi familiari di Brindisi per essere prelevato.
“Sto uscendo! Sbrigatevi! No, non c'è bisogno della giacca… no, la busta col cambio l’ho lasciata nell'armadietto della clinica…”
È in quel momento che realizzi una cosa: siamo come pacchi postali, spediti, accettati, ricoverati, dimessi. Con l’unica differenza che i pacchi Amazon almeno arrivano in orario.

E adesso? Ora si attende la OSS, figura mitologica metà infermiera metà madre Teresa, che con fare gentile varcherà la soglia chiedendo:

> “Chi vuole essere lavato per primo?”

Ecco. Oggi, forse, abbasserò lo sguardo, la voce sarà flebile ma sincera, e con una timidezza infantile dirò:

> “Sì… grazie.”

Perché qui, in clinica, l’umiltà si impara in ciabatte, con il pigiama a righe e un cuore che ogni tanto ha solo bisogno di essere curato — non solo con farmaci, ma con un gesto umano.

Alla prossima puntata, da questo piccolo grande universo parallelo chiamato reparto.

OSS

Questa mattina una OSS è entrata in camera e, con grande delicatezza, mi ha chiesto se volevo essere lavato. Non potendomi muovere dal letto, ho ringraziato ma ho declinato.
Una lacrima mi è scesa sul viso.
Non era solo per l'imbarazzo, ma per quella sottile ferita che si apre quando ci si sente fragili, quando la dignità si scontra con il bisogno.
Un grazie sincero a chi ogni giorno si prende cura, con rispetto e umanità, anche di ciò che non si vede: la nostra anima. ❤️

Cronache di un ricovero in clinica – Seconda puntata: “Notte brava ai Tamburi”

È ufficiale: se esiste una forma alternativa di movida, più creativa e anarchica della notte romana degli anni ’60, questa si svolge nel cuore pulsante del rione Tamburi. Altro che Ibiza.

Ore 23,45: luci basse, campanello d’allarme del vicino che ha premuto il tasto "Aiuto" per sbaglio (o forse per noia). Ore 00: il letto cigola come se ci fosse un’orchestra di grilli sotto al materasso. Ore 1: l’infermiera entra in punta di piedi… con gli zoccoli da guerra.
Ma il clou, cari lettori affezionati delle mie Cronache di un ricovero in clinica, arriva alle 4 del mattino.

Immaginate: la finestra con un piccolo spiraglio aperta per cercare un alito di vento, un’illusione di frescura, e all’improvviso… un coro da stadio. Non sto scherzando. Un manipolo di ragazzini dodicenni intonava con la passione di una curva sud in trasferta l’inno della loro squadra del cuore.

“Chi non salta bianconero è!”, gridavano con l’entusiasmo di chi ignora il significato profondo della parola "decibel".

Io, a quel punto, mi sono voltato verso il mio coinquilino di stanza — che chiameremo "Gemito Notturno", per la sua abitudine di lamentarsi a cadenza regolare ogni 8 minuti — e gli ho sussurrato:

> “Senti anche tu il derby?”
Lui ha risposto con un mugugno che, nella mia mente stanca, ho interpretato come:
“Stanno vincendo ai rigori.”

Il tempo di metabolizzare il mini-concerto che sono arrivate le infermieri ninja. Perché sì, di giorno sono dolci e professionali, ma di notte si trasformano in creature mistiche capaci di aprire porte senza toccarle, camminare senza lasciare impronte… salvo poi sbadigliare in stereo davanti al distributore del caffè.

Alle 6:30, il rito si compie. L’infermiera del turno del mattino entra con l’aria di chi ha dormito bene — e questo, già di per sé, è un affronto —, apre la finestra (finalmente!), e con il tono squillante dei presentatori di televendite annuncia:

> “Signor Giovanni, buongiorno! È ora delle terapie.”

Ecco. È in quel momento preciso che ho capito che la nottata era finita. Che la sopravvivenza non dipende solo dalle terapie o dagli esami del sangue, ma anche da un buon senso dell’umorismo… e da tappi per le orecchie certificati.

Alla prossima puntata, cari lettori. Sempre qui, dal mio letto con vista... sulla movida più surreale d’Italia.

Cronache di una notte in clinica ai Tamburi – prima puntata.

Mentre a Taranto si combatte fino all’ultimo voto, io mi batto per una causa altrettanto nobile: riuscire a dormire. Ma niente, neanche questa battaglia sembra andare in porto.

La mia posizione nel letto – rigorosamente a pancia in su, stile mummia egizia – ha ormai impresso le lenzuola in modo così dettagliato che i periti del Sacro Sudario di Torino stanno pensando a un gemellaggio con il mio lenzuolo.

E siccome la sorte ha un senso dell’umorismo tutto suo, oggi ha deciso di farmi il regalo più bello: l’esplosione dell’estate in giugno. Quell’afa appiccicosa che ti fa rimpiangere perfino il riscaldamento globale.

A rendere il tutto più suggestivo ci pensa l’ambiente. Mi trovo ricoverato in clinica nel cuore del rione Tamburi – il quartiere noto per la sua proverbiale quiete monastica. Una vera oasi di silenzio e raccoglimento. Se per silenzio intendiamo il sottofondo sonoro di tre autoradio diverse che si sfidano a colpi di neomelodici a tutto volume.

Alle 23, come da tradizione, qualcuno ha deciso di festeggiare un compleanno con una batteria di fuochi d'artificio che manco a Capodanno a Napoli. E ora, che si avvicina la mezzanotte, mi preparo spiritualmente ai fuochi di chiusura. Sarà San Qualcosa? Un fidanzamento? Un addio al celibato? Nessuno lo sa. Ai Tamburi non si festeggia per un motivo. Si festeggia e basta.

E sì, ci tengo a dirlo: sono nato proprio qui, ai Tamburi. Sarà per questo che, nonostante tutto, ci rido su. Ma se domattina mi vedete con le occhiaie di un panda insonne, sappiate che non è stanchezza. È folklore del Califfato del quartiere Tamburi.

Intervento chirurgico

Ho appena affrontato l’intervento. È andato tutto bene — o perlomeno, quanto basta per potermi permettere di tirare un bel sospiro di sollievo.
La parte più delicata è alle spalle. Ora inizia il tempo della pazienza, del riposo e della cura. Sono fiducioso, anche se affaticato. Il corpo chiede tempo, e io glielo darò.
Grazie a chi mi è stato vicino, anche solo con un pensiero. È in questi momenti che si riscopre il valore dell’umanità semplice, della vicinanza sincera, dei legami veri.
Vi aggiornerò presto. Intanto, mi affido al tempo e al coraggio silenzioso della guarigione.

sabato 10 maggio 2025

1979 – L’anno che cambiò il ritmo della storia.

C’è un anno che pulsa ancora nei ricordi di chi l’ha vissuto. Un anno che ha lasciato il segno tra rivoluzioni, speranze, paure e canzoni indimenticabili: il 1979.

È stato l’anno in cui il mondo sembrava sul crinale tra due epoche. In Italia, il sangue di Guido Rossa macchiava la coscienza del paese e diventava simbolo di coraggio e giustizia nel cuore buio degli anni di piombo. Il terrorismo mordeva ancora, ma si faceva strada anche una nuova consapevolezza collettiva. La gente scendeva in piazza, si organizzava, cercava risposte. La politica era discussione quotidiana, nei bar, nei circoli, nelle case. Era l’anno in cui la sinistra e il sindacato si interrogavano sul presente e sul futuro di un’Italia in transizione.

Nel mondo, Margaret Thatcher saliva al potere nel Regno Unito, segnando l’inizio di un’era politica che avrebbe cambiato l’Europa. In Iran esplodeva la rivoluzione islamica, e in Afghanistan cominciava l’invasione sovietica. L’equilibrio mondiale tremava.

Eppure, tra i notiziari e le lotte, a fare da colonna sonora c’era lei: la musica.

Il 1979 fu un’esplosione di note che ancora oggi fanno vibrare l’anima. Nelle radio si alternavano voci internazionali come Gloria Gaynor con “I Will Survive” – un inno alla resistenza personale e collettiva – e i Buggles con “Video Killed the Radio Star”, che anticipavano il futuro dell’immagine. I Queen incantavano con “Don’t Stop Me Now”, mentre Michael Jackson cominciava a diventare leggenda.

In Italia, la musica era poesia sociale. “Nuntereggae più” di Rino Gaetano sparava ironia come proiettili, “Anna e Marco” di Lucio Dalla raccontava la malinconia e i sogni di provincia, “Buona Domenica” di Venditti parlava di gioventù, libertà e amicizie senza tempo. Canzoni che non invecchiano mai.

Il 1979 era jeans a zampa, capelli lunghi, motorini rombanti, lotte studentesche, balli sfrenati sotto luci colorate, vinili graffiati dal tempo e dal cuore. Era un’Italia giovane, agitata, viva. Un’Italia che cercava se stessa.

Oggi, mentre la memoria si fa spesso veloce e superficiale, è importante rispolverare quell’anno. Perché il 1979 ci ha insegnato che anche nel buio si può ballare. Che anche nella confusione si può credere. E che ogni generazione ha bisogno delle sue canzoni per non dimenticare chi è.

“Gli anni ’60: la colonna sonora della nostra staffetta generazionale”.

C’è un momento in cui la musica smette di essere solo melodia… e diventa identità. Gli anni ’60 sono stati quel momento.

Erano gli anni del sogno, della ribellione, dei primi baci dietro l’edicola e delle radioline a transistor sotto il cuscino. Anni in cui i Baby Boomers cominciavano a prendere per mano la società, preparando inconsapevolmente il testimone da passare a quella che poi sarà chiamata Generazione X.
Una staffetta fatta di dischi, idee, rivoluzioni culturali, ma soprattutto di canzoni.

▫️“Stand by Me” – Ben E. King (1961)
Una preghiera laica di resistenza e amore. Ogni volta che la sentiamo, qualcosa dentro si raddrizza. “When the night has come…” e il mondo intorno svanisce. Restano solo i legami veri, quelli che resistono.

▫️“Be My Baby” – The Ronettes (1963)
Il battito del cuore in 4/4. Una richiesta d’amore eterna, una voce femminile potente e sognante. È l’America della spensieratezza ma anche delle prime consapevolezze. La dolcezza che ti prende per mano mentre scopri il mondo.

▫️“I Want to Hold Your Hand” – The Beatles (1963)
Un’esplosione di gioia adolescenziale. I Beatles erano un terremoto. I ragazzi con lo sguardo verso il futuro, si lasciavamo travolgere. Tenersi per mano, allora, era già una rivoluzione.

▫️“(I Can't Get No) Satisfaction” – The Rolling Stones (1965)
La voce del disagio, del “non ci sto”, dell’inquietudine di chi sente che la realtà non basta più. Quel riff di chitarra è diventato il loro grido. Per molti, è iniziata lì la lunga strada verso l’impegno.

▫️“Hey Jude” – The Beatles (1968)
Un abbraccio in musica, un invito a non lasciarsi andare. “Take a sad song and make it better”... la frase che ancora oggi dovremmo insegnare ai giovani. È qui che la staffetta generazionale diventa eredità morale.

Gli anni ’60 non sono stati solo un’epoca: sono un ponte.
Tra chi sognava un mondo nuovo e chi oggi ne cerca ancora il senso.
Una generazione non è mai davvero finita, se la sua musica continua a parlare.

Le generazioni e i loro tempi: un viaggio tra esperienze, sogni e realtà.

Ogni generazione ha il suo tempo, i suoi sogni, le sue lotte e i suoi strumenti. E comprenderle non è solo un esercizio culturale: è un atto di rispetto, una chiave per dialogare meglio e costruire insieme un futuro condiviso.

▪️I Baby Boomers (1946-1964) sono i figli della ricostruzione e della speranza. Hanno conosciuto l’Italia che usciva dalla guerra, le lotte sindacali, le conquiste dei diritti, il boom economico. Molti hanno lavorato duro, spesso mettendo al centro la famiglia e la sicurezza del posto fisso. Sono la generazione che ha "costruito" e a cui oggi spesso chiediamo di "lasciare spazio".

▪️La Generazione X (1965-1980) è cresciuta in un mondo che cambiava pelle: la fine delle ideologie forti, l’inizio del precariato, le prime crisi industriali. Sono i genitori dei Millennials, i pontefici tra analogico e digitale. A loro si deve spesso il passaggio dalla fabbrica al computer, dalla militanza al disincanto.

▪️I Millennials o Generazione Y (1981-1996) sono quelli che hanno visto nascere internet e poi i social. Molti hanno studiato, fatto esperienze all’estero, ma si sono scontrati con un mondo del lavoro sempre più instabile. Portano in sé una tensione continua tra aspettative e realtà. Cercano senso, più che status. Sono spesso vittime del “ritardo sociale” (casa, figli, stabilità), non per scelta, ma per necessità.

▪️La Generazione Z (1997-2012) è nata digitale, cresciuta con smartphone in mano e identità fluide. È la generazione delle cause globali: clima, diritti, identità. Ma anche quella più fragile sul piano emotivo. Comunica in modi nuovi, rapidi, visivi. A volte ci appaiono distanti, ma forse sono solo molto più veloci di noi.

▪️Gli Alpha (2013-2024), i cosiddetti screenagers, sono i bambini di oggi, immersi fin da piccoli in uno schermo. Chi li educa ha la responsabilità immensa di guidarli in un mondo iperconnesso, dove però il contatto umano rischia di perdersi. Toccherà a noi adulti seminare per loro esempi di empatia, di attenzione, di rispetto per il pianeta e per gli altri.

▪️E poi ci sarà la Generazione Beta (2025-2039). Non sappiamo ancora chi saranno, ma possiamo immaginare che saranno il frutto delle scelte che facciamo oggi. Se trasmettiamo loro il valore della comunità, del bene comune, della lentezza che serve per capire… forse costruiremo un mondo migliore.

Perché ogni generazione ha i suoi strumenti, ma i valori fondamentali – solidarietà, dignità, giustizia – vanno trasmessi.

E allora impariamo a parlarci, senza giudicarci. Baby Boomers e Zeta, X e Alpha: c'è bisogno di dialogo, di ascolto, di ponti.

Il futuro è una staffetta, non una gara.

giovedì 10 aprile 2025

"La naja": un pezzo di vita, tra cameratismo, sacrifici e scoperte.

Stamattina, mentre ero in auto, immerso nei miei pensieri, la radio ha iniziato a suonare Generale di Francesco De Gregori. Una canzone che non ascoltavo da un po', ma che ogni volta mi scava dentro. Ed è stato proprio in quel momento, mentre guidavo in silenzio e le parole di De Gregori scorrevano tra un ricordo e l’altro, che mi è tornato in mente cosa ha significato per tanti ragazzi, in quegli anni, la leva obbligatoria. Così nasce questo post. Da una suggestione. Da un’emozione. Dal desiderio di fissare su carta – o meglio, sui social – una memoria collettiva.

Per chi è nato tra gli anni ’50 e ’80, la “naia” è stata molto più di un dovere civile: è stata una tappa obbligata della vita, un salto nel vuoto che molti affrontavano a denti stretti. Ricevere la cartolina precetto era un colpo al cuore: ti cambiava i piani, ti sradicava dalla tua quotidianità, ti spediva lontano, spesso dall’altra parte dell’Italia.

C’era chi partiva piangendo, chi facendo lo spavaldo, chi semplicemente rassegnato. Ma dietro ogni zaino c’era un giovane con mille domande e poche certezze. Le prime settimane erano durissime: sveglie all’alba, urla, divisa, marce, regole incomprensibili, gerarchie ferree. Ma con il passare del tempo, quella caserma diventava una piccola patria, fatta di camerati che condividevano tutto: dalle fatiche ai sorrisi.

Si facevano amicizie che duravano anni, si scoprivano dialetti, abitudini, mondi diversi. Ragazzi del Sud mandati al Nord, e viceversa. Tutti insieme, sotto la stessa coperta ruvida, con lo stesso piatto di rancio davanti. In mezzo a tutto questo, si cresceva. A volte anche in fretta, spesso senza accorgersene.

Ma non era tutto rose e fiori. C’erano anche lati oscuri: il nonnismo, la noia, il disagio di chi non accettava quell’ambiente. Ed è anche da queste esperienze che è nato, negli anni ’90, il movimento degli obiettori di coscienza e il servizio civile come alternativa.

Eppure, ancora oggi, per chi l’ha vissuta, la leva è una parentesi che non si dimentica. Un’esperienza che ti porti dentro, nel bene e nel male. Una scuola di vita, per molti. Per altri, una ferita. Ma per tutti, un passaggio.

Poi è arrivato il 2005, e con la sospensione della leva obbligatoria si è chiuso un capitolo della nostra storia. Da allora siamo cambiati. Siamo diventati più liberi, forse. Ma anche più soli.

Oggi, nell’auto, mentre De Gregori cantava la malinconia di una giovinezza andata, ho capito che era giusto ricordare. Per chi c’era, per chi non c’è più. Perché anche la naja, in fondo, è stata Italia. Una parte vera, ruvida e intensa della nostra vita.

venerdì 21 marzo 2025

L'arte della libertà e le catene invisibili.

📝 L’altro ieri, passeggiando per il centro di Taranto, mi sono imbattuto in un artista di strada intento a creare una meravigliosa scultura di sabbia. Mi sono fermato ad ammirare il suo lavoro, ma anche a riflettere su ciò che ci accomuna e su ciò che invece ci differenzia.
Lo guardavo e vedevo un uomo libero, un uomo che ha scelto di vivere secondo le proprie regole, al di fuori delle costrizioni di un lavoro stabile, di una routine imposta, di obblighi sociali soffocanti. Lui crea, esprime se stesso senza filtri, con le sue mani e con il tempo che decide di dedicare alla sua arte. La sua ricchezza è nella passione, nella caparbietà e nel coraggio di esistere senza compromessi.
Io, al contrario, sono stato per anni dentro un sistema fatto di doveri, di responsabilità lavorative e sociali, di battaglie sindacali e politiche. Ho scelto di dedicarmi agli altri, di lottare per un’idea di società più giusta, di spendermi per il bene comune. Ma in questo mio impegno c’è anche una gabbia: le regole, le strutture, il dover mediare sempre tra sogni e realtà.
E allora mi chiedo: chi è davvero libero? Chi segue la propria vocazione senza preoccuparsi di altro o chi lotta per cambiare le cose ma si trova sempre dentro un sistema che lo vincola? Non ho una risposta certa. Forse la verità sta nel mezzo. Forse la vera libertà è riuscire a trovare un equilibrio tra l’essere e il fare, tra l’arte e l’impegno, tra il sogno e la realtà.
O forse, semplicemente, è il modo in cui scegliamo di vivere che dà senso a tutto.

#Riflessioni #ArteDiStrada #Libertà #riflessioni

sabato 15 marzo 2025

Lettera al popolo americano.

Cari cittadini degli Stati Uniti d’America,

vi scrivo con il cuore pesante, da questa sponda dell’Atlantico, perché quello che accade oggi nel vostro Paese riguarda tutti noi.
La democrazia, che per secoli avete difeso e propagandato come modello di libertà, è sotto attacco. E non si tratta di un attacco esterno, ma di un’erosione interna, orchestrata da chi, invece di servire il popolo, vuole piegarlo ai propri interessi.

Donald Trump non è solo un uomo, è il sintomo di un virus che ha infettato le istituzioni: la manipolazione della verità, l’uso della giustizia come arma politica, la costruzione di una realtà parallela in cui i fatti non contano più. Il suo ritorno sulla scena politica non è solo una sfida elettorale, è una minaccia esistenziale alla democrazia americana.

Elon Musk, con la sua presa sempre più evidente sulle piattaforme di comunicazione, non è un semplice imprenditore visionario, ma un uomo che sta trasformando il discorso pubblico in una distopia governata dall’algoritmo, dove la propaganda e la disinformazione trovano terreno fertile. Libertà di espressione non significa dare spazio agli estremisti, ai complottisti e agli autocrati, ma oggi il dibattito è contaminato da chi vuole confondere, disorientare e minare la fiducia nelle istituzioni democratiche.

E poi ci sono gli oligarchi, miliardari senza volto che finanziano il caos, distruggendo la libertà di informazione, l’istruzione, i diritti fondamentali. 
Hanno costruito un sistema che serve solo loro, svuotando il sogno americano fino a ridurlo a una caricatura: una nazione in cui il denaro conta più del voto, in cui le leggi servono a proteggere i privilegiati, in cui il popolo è lasciato a combattere guerre culturali mentre chi ha davvero il potere accumula ricchezze e influenza senza limiti.

Ma voi, popolo americano, avete ancora il potere di fermarli. La democrazia è fragile, ma resiste se viene difesa. 
Non lasciate che la vostra Costituzione diventi carta straccia. Non permettete che il vostro Paese si trasformi in un’ombra di sé stesso, un’America che somiglia più alle autocrazie che avete combattuto per generazioni.

La storia vi guarda. Il mondo vi guarda. Siate all’altezza della vostra eredità. Difendete la verità. Difendete la libertà. Difendete la vostra democrazia.

Con speranza e determinazione,
Giovanni Pugliese
Italia

Chi sono i Maranza? Moda o cultura del degrado?

Negli ultimi anni, il termine Maranza è diventato sempre più comune nelle cronache e nei discorsi giovanili. Ma chi sono veramente i Maranza? Si tratta solo di una moda passeggera o di un fenomeno più profondo che riflette un disagio sociale?

▪️Origine e significato del termine "Maranza"

Il termine nasce nel nord Italia, in particolare nelle periferie di Milano e Torino, ma si è diffuso rapidamente in tutta la penisola, fino ad arrivare anche nelle scuole e nelle piazze di città più piccole. L’etimologia non è certa, ma sembra derivare da un’espressione milanese utilizzata per descrivere ragazzi di periferia con atteggiamenti spacconi, vestiti con abbigliamento appariscente e spesso coinvolti in episodi di microcriminalità.

I Maranza sono generalmente giovani tra i 13 e i 20 anni, spesso di origine mista o appartenenti a classi sociali più basse, che si aggregano in gruppi caratterizzati da un forte senso di appartenenza. Il loro stile è influenzato dalle sottoculture trap e hip-hop, con abbigliamento vistoso, tute Adidas, Nike o Lacoste, sneakers costose e cappellini da baseball calati sugli occhi. Il loro linguaggio è un mix tra slang giovanile, termini di origine straniera e riferimenti al mondo della strada.

▪️I Maranza: ribellione o disagio?

Definire i Maranza solo come una moda sarebbe riduttivo. Il fenomeno è strettamente legato a un disagio giovanile più profondo, che trova espressione in comportamenti provocatori, atteggiamenti di sfida verso l’autorità e, in alcuni casi, atti di vandalismo o piccola criminalità.

Molti giovani Maranza provengono da contesti difficili: famiglie fragili, scuole con alti tassi di dispersione scolastica, quartieri privi di opportunità di crescita. La loro ribellione spesso non ha uno scopo politico o sociale, ma è piuttosto un’espressione di frustrazione e di ricerca di riconoscimento all’interno di un gruppo. I social media hanno amplificato il fenomeno, rendendo virali video in cui questi giovani si esibiscono in atteggiamenti provocatori, risse, gare di motorini o balli di gruppo in strada.

▪️Una moda pericolosa?

Il problema dei Maranza non è tanto l’abbigliamento o lo stile di vita, quanto il messaggio che veicolano. 
Per molti ragazzi più giovani, i Maranza rappresentano un modello di successo alternativo a quello tradizionale, basato sullo studio e sul lavoro. 
Il rischio è che questa subcultura diventi un trampolino verso forme di devianza più serie, come lo spaccio di droga, la violenza di gruppo o l’adesione a vere e proprie gang.

Molti adulti vedono in loro semplicemente un fastidio, una manifestazione di maleducazione e inciviltà. Ma ignorare il fenomeno o reprimerlo senza comprenderne le cause profonde significa lasciare che si radicalizzi e diventi ancora più difficile da gestire.

▪️Come rispondere al fenomeno?

Affrontare il fenomeno dei Maranza non significa solo aumentare la sorveglianza o reprimere i comportamenti devianti, ma piuttosto offrire ai giovani alternative reali. Investire in spazi di aggregazione sani, potenziare il ruolo delle scuole, dei centri sportivi e delle associazioni giovanili può aiutare a dare ai ragazzi un senso di appartenenza diverso da quello offerto dalla subcultura Maranza.

Inoltre, è fondamentale capire che dietro la maschera dello spavaldo spesso si nasconde un ragazzo che cerca attenzione, rispetto e un posto nel mondo. 
Parlare con loro, coinvolgerli in attività costruttive e mostrare modelli positivi può essere più efficace di qualsiasi repressione.

I Maranza sono il sintomo di un problema più grande: la mancanza di punti di riferimento e di opportunità per molti giovani. 
Ridurre il fenomeno a una semplice moda giovanile sarebbe ingenuo, così come demonizzarlo senza affrontarne le cause. 
La vera domanda non è se i Maranza siano un problema, ma cosa dice di noi, come società, il fatto che sempre più giovani scelgano di identificarsi in questa subcultura.

ATTENZIONE: TRUMP ATTACCA LA DEMOCRAZIA, LA GIUSTIZIA E LA LIBERTÀ DI STAMPA!

Donald Trump continua la sua pericolosa escalation contro i pilastri fondamentali di ogni Stato democratico: la libertà di stampa, l'indipendenza della magistratura e lo Stato di diritto.

🔴 Attacca i media, accusandoli di scrivere troppe notizie negative su di lui e arrivando a dire che dovrebbero essere "illegali". Un attacco diretto alla libertà di stampa, principio cardine della democrazia.

⚖️ Attacca i giudici e i procuratori, definendoli "corrotti", "feccia", "squilibrati" e sostenendo che dovrebbero finire in galera. Un attacco senza precedenti all'indipendenza della magistratura, con toni da regime autoritario.

💣 Minaccia lo Stato di diritto, rifiutando qualsiasi forma di controllo e cercando di screditare ogni istituzione che lo indaga. Questo è il modus operandi dei leader populisti che vogliono distruggere la democrazia dall'interno.

‼️ Questo non è un semplice attacco personale, è un attacco alla democrazia stessa. Un ex presidente che alimenta odio contro media, giudici e magistrati sta preparando il terreno per una deriva pericolosa. Chiunque ami la libertà e i diritti non può restare in silenzio.

📢 Gli americani devono difendere la propria democrazia prima che sia troppo tardi!

Democrazia e pace: un binomio in crisi.

Viviamo in un'epoca in cui la democrazia sembra aver perso il suo fascino. Per decenni, è stata considerata il faro della civiltà, la forma di governo che garantisce diritti, libertà e giustizia. Oggi, però, assistiamo a un progressivo indebolimento della democrazia in molte parti del mondo. Governi autoritari consolidano il loro potere, il populismo cresce, la sfiducia nelle istituzioni aumenta e, soprattutto, le guerre e i conflitti sembrano non finire mai.

Ma chi sono i veri nemici della democrazia? Spesso si tende a puntare il dito contro i dittatori, i regimi oppressivi, le grandi potenze che manipolano gli equilibri internazionali. Eppure, il nemico più insidioso non è esterno: siamo noi stessi. Quando dimentichiamo il valore della libertà, quando diamo per scontati i diritti che abbiamo conquistato, quando smettiamo di difendere la democrazia con la partecipazione e il pensiero critico, allora siamo noi a renderci complici del suo declino.

Senza pace, non c’è libertà.

La democrazia non può esistere senza la pace. È un concetto semplice, quasi ovvio, eppure lo dimentichiamo troppo spesso. Nessuno può sentirsi libero se vive sotto un regime di oppressione, se è invaso, se è sottomesso alla volontà altrui. La storia ce lo insegna: la libertà non si costruisce sulle macerie della guerra, né sulla paura o sull’instabilità. Eppure, continuiamo a vedere conflitti che dilaniano intere regioni del mondo, spesso in nome di interessi economici e geopolitici.

Le guerre non sono mai portatrici di democrazia, nonostante il pretesto con cui vengono giustificate. Dall’Iraq all’Ucraina, dalla Palestina allo Yemen, la storia recente ci mostra che il risultato della guerra è sempre lo stesso: morte, distruzione, disperazione. La pace non è solo l’assenza di guerra, ma un equilibrio che garantisce ai popoli di autodeterminarsi, di costruire società libere, di progredire senza paura.

La democrazia non è un dono, ma una responsabilità.

Troppo spesso ci dimentichiamo della fortuna che abbiamo. Chi vive in una democrazia consolidata non si rende conto di quanto fragile sia questo sistema. Pensiamo che sia un diritto acquisito per sempre, mentre invece è un meccanismo che ha bisogno di essere costantemente alimentato. Se smettiamo di partecipare, di informarci, di lottare per i nostri diritti e per quelli degli altri, lasciamo spazio a chi vuole sostituire la democrazia con qualcosa di più autoritario, più controllabile, più "facile".

L'apatia politica, il disinteresse per le istituzioni, la rassegnazione di fronte alle ingiustizie: sono questi i veri nemici della libertà. Ecco perché è fondamentale tenere viva la cultura democratica, educare le nuove generazioni alla partecipazione, alla solidarietà, alla difesa dei diritti umani. Non possiamo pretendere di vivere in libertà se ci chiudiamo in un individualismo sterile, se ci accontentiamo di una democrazia svuotata di significato.

Pace e democrazia: una lotta collettiva.

Vogliamo la libertà, ma spesso dimentichiamo che essa ha un prezzo: l’impegno quotidiano per mantenerla. Senza pace, la democrazia diventa un’illusione; senza democrazia, la pace è solo una tregua imposta dall’alto. Il mondo di oggi ci pone davanti a sfide enormi: cambiamenti climatici, disuguaglianze crescenti, nuovi nazionalismi, derive autoritarie. La risposta non può essere il disimpegno, ma l’azione collettiva.

Difendere la pace e la democrazia significa essere vigili, informati, attivi. Significa non accettare passivamente le narrazioni di chi giustifica guerre e repressioni in nome della sicurezza o dello sviluppo economico. Significa non smettere mai di credere che un mondo più giusto è possibile, ma solo se siamo pronti a lottare per costruirlo.

Oggi la democrazia non è di moda, è vero. Ma proprio per questo dobbiamo renderla di nuovo desiderabile, necessaria, imprescindibile. Non lasciamo che la libertà diventi un ricordo sbiadito. Perché solo in un mondo pacifico possiamo essere davvero liberi.

📘 Diario di bordo – N°10 | Luglio 2025

📘 Diario di bordo – N°10 | Luglio 2025 “Incontri ravvicinati con la dottoressa (umana), camici volanti e supercazzole terapeuti...