“Cronache da un letto troppo freddo: istruzioni per l’uso della pazienza disperata”
Ore 9.50
Notizia fresca di corridoio: resterò qui più del previsto.
Non “qualche ora”, non “un giorno”, no… qualcosa di più lungo, vago, indefinito, come certe promesse elettorali.
La comunicazione è arrivata serafica, come se mi avessero appena detto che hanno finito i cornetti al bar, invece è il mio umore ad essere finito… sotto i piedi.
Nel frattempo, nella mia stanza, gli altri due pazienti parlano al telefono con i propri cari: un sottofondo melodrammatico tra saluti, raccomandazioni e “ti porto il pigiama più pesante”. Sembra quasi di essere in un film neorealista… ma senza il fascino del bianco e nero.
Ore 10.30
Sono ancora qui, immobile, con la mente che vaga come un aquilone in una giornata di vento.
Penso alla noia infinita delle prossime ore, giorni, ere geologiche.
E penso a voi, poveri lettori, condannati a sorbirvi i miei scritti di sopravvivenza.
Mi dispiace? Sì.
Smetterò? Assolutamente no.
Se devo soffrire io, almeno vi porto con me in questa crociata di ansia e sarcasmo.
Ore 11.30
Silenzio tombale.
Sono sdraiato con il camice dell’orrore e le copertine addosso, in una stanza fredda abbastanza da conservare un surgelato.
Non mi piace affatto, ma va bene: un tocco di sofferenza ambientale mancava al pacchetto completo.
Il cigolio dei carrelli dei medicinali rimbalza nel corridoio come un richiamo di guerra.
Un suono che non ti permette di rilassarti neanche per sbaglio.
E io, nel frattempo, vigilo.
Aspetto la barella che mi porterà in sala operatoria con la stessa attenzione con cui un gatto aspetta il topo:
DEFCON 1, allerta massima, nervi tesi come corde di violino.
E mentre tutto sembra sospeso in un limbo, una domanda mi attraversa la testa:
È mai possibile che ogni esperienza sanitaria debba sembrare una prova di resistenza psicologica?
“In ospedale impari una grande verità: la pazienza non è una virtù… è un obbligo di sopravvivenza.”
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